Ma il vanadio, presente nell’acqua che esce dai rubinetti soprattutto nelle zone vulcaniche, fa male o no? Dai laboratori delle università non è ancora arrivata l’ultima parola, e «considerata l’incertezza scientifica» sulla sua tossicità i comuni dell’Etna possono continuare a utilizzare acqua con livelli di vanadio tripli rispetto ai limiti massimi nazionali. Questa strana inversione del principio di precauzione è stata scritta sulla «Gazzetta Ufficiale» di lunedì scorso, in un decreto del ministero della Salute che concede una nuova deroga all’acqua siciliana. Prima di dare l’ennesimo via libera, anche il legislatore deve aver lottato con più di un’incertezza, di cui rimane traccia nello zoppicante testo della deroga. Va bene, dice in sostanza il ministero, il parametro del vanadio in Sicilia può alzarsi fino a 160 microgrammi per litro, contro i 50 microgrammi consentiti nel resto d’Italia, ma la regione deve informare i cittadini del problema e «fornire consigli a gruppi specifici di popolazione per i quali potrebbe sussistere un rischio particolare». A dare il verdetto sulla tossicità del vanadio, poi, è il consiglio superiore di sanità, «alla luce dei risultati scientifici degli studi sperimentali» già avviati; il responso deve arrivare entro quest’anno, ma i livelli possono rimanere a 160 microgrammi per tutto il 2011. «Fate pure», insomma, nell’attesa di nuove infrastrutture (i depuratori domestici in commercio non bastano), ma la confusione è tanta. Il provvedimento, che riguarda direttamente un gruppo di comuni dell’Etna da Adrano a Bronte, da Belpasso a Camporotondo e San Pietro Clarenza, è solo l’ultimo tassello di una sorta di federalismo dell’acqua che sembra adeguare le regole ai problemi dei territori più che a livelli generali di tutela della salute. Se a Bronte non fa male il vanadio, gli abitanti di una novantina di comuni del Lazio sono immuni per legge anche da clorito e trialometani, mentre la Toscana ha chiesto di considerare salutari per decreto livelli un po’ più alti di boro e arsenico. Ormai, come spiega l’ultimo dossier sul tema realizzato dal «Salvagente», il periodico dei consumatori, sulla base dei dati di Cittadinanzattiva, sono 13 su 20 le regioni che hanno chiesto deroghe al ministero della salute, che finora non ha mai detto di no. La via di fuga si è aperta con la stessa legge (la 31 del 2001) che ha fissato i parametri dell’acqua potabile, e che ha previsto per i comuni fuori norma la possibilità di far partire il domino della deroga: il sindaco chiede il permesso alla regione, la regione gira la domanda al ministero della salute, il ministero della salute chiede lumi al consiglio superiore della sanità e la giostra sfocia invariabilmente in un via libera. Questo continuo revival del «decreto atrazina» (il provvedimento che nell’89 moltiplicò i livelli «tollerati» del principio attivo dei diserbanti allora diffusi in agricoltura) produce situazioni al limite del paradosso: in 12 comuni della provincia di Roma, da Ariccia a Castelgandolfo, da Cerveteri a Genzano e Velletri, l’acqua del rubinetto è vietata ai minori di 14 anni, come i film troppo violenti, ci sono Asl che sconsigliano i dentifrici al fluoro, che esce troppo abbondante dal rubinetto, mentre la Calabria è una delle poche regioni a non aver chiesto deroghe, ma Reggio Calabria è anche l’unico capoluogo di provincia senza acqua potabile. In qualche caso, per esempio in Lombardia, le regole ad hoc hanno accompagnato un lungo processo di adeguamento degli impianti (i comuni problematici si sono ridotti da 100 a 10 in sei anni), mentre altrove la deroga è eterna: in Campania, per esempio, sette anni non sono bastati per riportare a norma i livelli del fluoro.
Atrazina, boro e clorito: acque d’Italia in deroga
Federalismo idraulico
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