Le società in house potrebbero essere assoggettate agli obblighi di aggregazione per le acquisizioni di lavori, servizi e forniture.
Nel documento sottoposto a consultazione sui profili applicativi dell’articolo 33, comma 3-bis del Codice dei contratti, l’Autorità nazionale anticorruzione evidenzia la possibilità che le società affidatarie dirette di servizi in base al modello in house providing siano sottoposte all’obbligo di effettuare acquisizioni di lavori, beni e servizi mediante i modelli aggregativi previsti dalla norma per i Comuni non capoluogo, quindi facendo ricorso alle centrali di committenza organizzate dalle stesse amministrazioni o ai soggetti aggregatori (Consip e centrali di committenza regionali) o alle stazioni uniche appaltanti presso le province.
Secondo l’Anac, infatti, l’assoggettamento delle società all’obbligo al pari dei Comuni loro soci deriva proprio dal particolare rapporto connesso al modulo di affidamento.
L’analisi parte dall’assunto per cui il metodo dell’in house providing costituisce un principio derogatorio rispetto alla regola dell’evidenza pubblica, e quindi deve essere applicato in termini di stretta interpretazione.
Pertanto, in rapporto agli obblighi derivanti dall’articolo 33, comma 3-bis del Codice, secondo l’Anac, l’assoggettamento al rispetto delle regole di evidenza pubblica delle società affidatarie in house discende dal fatto che esse sono equiparabili a una diramazione organico-amministrativa dell’ente controllante.
Ne deriva che qualora sia un Comune non capoluogo di provincia ad avvalersi di una società in house, lo stesso regime giuridico dettato per il primo deve inevitabilmente estendersi alla seconda riguardo agli acquisti di lavori, beni e servizi.
Le società in house, quindi, dovrebbero attenersi all’obbligo di acquisizione di lavori, beni e servizi facendo ricorso, anch’esse, ai modelli aggregativi, peraltro con una scelta che dovrebbe essere prodotta in modo coerente con i Comuni soci.
La proposta interpretativa dell’Anac presenta tuttavia molti elementi critici, a partire proprio dal tema della relazione interorganica, posto in discussione dalla giurisprudenza civilistica che ha giudicato molte società pubbliche assoggettabili alle procedure fallimentari, riconoscendone la distinta soggettività giuridica e la “alterità” rispetto all’ente socio.
Lo stesso articolo 33, comma 3-bis del Codice dei contratti, peraltro, a differenza di altre disposizioni in materia di razionalizzazione dei conti pubblici adottate negli ultimi anni (ad esempio le regole sulle riduzioni di spesa previste dall’articolo 6 della legge 122/2010) individua come destinatari solo i Comuni non capoluogo, non riportando alcuna indicazione estensiva a soggetti collegati.
L’interpretazione dell’Anac, inoltre, determinerebbe una complicata situazione per le società in house che gestiscono di servizi di rete riferiti agli ambiti territoriali ottimali, frequentemente partecipate sia dal Comune capoluogo che dagli altri Comuni della provincia. Questi soggetti, infatti, rischierebbero di dover operare con un regime differenziato per i subaffidamenti e per gli appalti affidati in ragione della tipologia di ente affidante, con ricorso ai moduli di aggregazione degli acquisti per le esigenze riferite ai Comuni non capoluogo e con gestione in proprio per quelle riferibili al Comune capoluogo.
Si determina in questo modo un rischio evidente di confliggenza con le logiche di aggregazione d’ambito, promossa peraltro dai macro-criteri di razionalizzazione delle partecipate definiti dal comma 611 dell’articolo 1 della legge 190/2014.
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