L’attività amministrativa comunale e l’emergenza Coronavirus

Inquadriamo e circoscriviamo correttamente, alla luce delle coordinate ordinamentali e dei principi generali, l’attività amministrativa, anche locale, ai tempi del Coronavirus

22 Aprile 2020
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Pubblichiamo di seguito una anteprima del fascicolo 4 del periodico edito da Maggioli Comuni d’Italia, la rivista delle amministrazioni pubbliche, in uscita in questi giorni. L’articolo, firmato da Tiziano Tessaro, è l’editoriale che apre il numero in uscita in questi giorni.

Credo che nessuno di noi avesse o avrebbe immaginato, anche poco tempo fa, nemmeno lontanamente la situazione drammatica che stiamo vivendo: che mette a dura prova i nostri sentimenti, la nostra vita, le esistenze dei propri cari, ma anche lo stesso funzionamento delle istituzioni, scuotendo alla base lo stesso fondamento della coesistenza sociale, nel ritardo silenzioso delle istituzioni europee. Non vorrei scadere nel banale con queste osservazioni, ma c’è necessità di ricondurre nel giusto alveo, inquadrandola correttamente alla luce delle coordinate ordinamentali e dei principi generali, l’attività amministrativa, anche locale, ai tempi del Coronavirus.
I temi sono molteplici e si possono ricordare in ordine sparso: il diritto alla salute, i diritti di libertà, la scarsità delle risorse finanziarie, l’equilibrio di bilancio e le deroghe al principio stesso, l’emergenza, l’urgenza, i termini, le proroghe, i documenti a supporto delle deroghe, la digitalizzazione, il funzionamento degli organi e dei servizi, ecc.
Non è possibile dare un ordine o una scaletta di priorità a questi argomenti, se non in un unico senso, certamente diverso ed anzi diametralmente opposto a quello dichiarato – per fortuna in un altro ambito ordinamentale – da Boris Johnson (che peraltro ne è rimasto vittima). Nel nostro ordinamento il diritto alla salute rappresenta un prius, ed è necessario sottolineare che “in presenza di inderogabili vincoli di bilancio il livello essenziale di assistenza sanitaria costituisce un vin­colo di priorità all’interno delle risorse disponibili … e in tal senso non si pone (almeno imme­diatamente e ordinariamente) in conflitto con il principio generale e pervasivo dell’equilibrio di bilancio” (Cons. di Stato, sez. III, 6 febbraio 2015, n. 603, punto 6).

Il diritto alla salute è un valore protetto dalla Costituzione, ad un tempo, come fondamentale diritto dell’individuo e, dall’altro, come interesse della collettività, tanto da essere costantemente riconosciuto come primario, sia per la sua inerenza alla persona umana, sia per la sua valenza di diritto sociale: chiamando direttamente in causa il rapporto tra il coordinamento della finanza pubblica, di cui sono espressione norme statali che fissano limiti alla spesa di enti pubblici regionali, e la tutela della salute, nella esigenza di garantire – nel rispetto delle finalità di coordinamento finanziario[1]– il mantenimento dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali”, la giurisprudenza costituzionale[2] ne ha evidenziato la natura di diritto soggettivo, fondamentale, che ne permette – eventualmente e solo a determinate condizioni – la restrizione ove imposta dallo stesso principio di solidarietà sociale[3].

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Il rapporto tra queste due esigenze deve obbedire alla logica secondo cui “È la garan­zia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionar­ne la doverosa erogazione(Corte cost. n. 275/2016): in altri termini, il legislatore statale e regionale nella programmazione delle risorse e nell’adottare scelte politiche e di­stributive deve salvaguardare il nucleo inviolabile dei diritti, poiché la tutela dell’equilibrio di bilancio non può giustificare una compressione del diritto fondamentale. A fronte quindi di un livello minimo ed essenziale, non finanziariamente condizionato, dei diritti sociali di prestazione, in cui cioè la discrezionalità del legislatore «non ha carattere assoluto e trova un limite nel […] rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati»[4], va precisato quindi che le esigenze di bilancio non possono “ridondare in danno del diritto dei cittadini – costituzionalmente protetto – al godimento del già ricordato nucleo irriducibile della tutela della salute, coincidente, per quello che qui interessa, con la previsione dei LEA dell’area dell’integrazione socio-sanitaria”[5]. L’equilibrio di bilancio, che pure costituisce un obiettivo primario per gli enti che erogano i servizi, deve garantire quindi quel “nucleo incomprimibile di garanzie minime” allo scopo di rendere effettivo il godimento dei diritti fondamentali, in funzione del quale tale equilibrio va costruito, sacrificando, nel caso di insufficienza delle risorse, le spese c.d. facoltative[6].

Insomma, non si possono orientare le politiche di bilancio verso la indiscriminata riduzione delle risorse impiegate, “sacrificando” la qualità e la quantità delle prestazioni; ciò in quanto, in tali attività, sono coinvolti diritti fondamentali, la cui tutela, incondizionata, costituisce un obiettivo imprescindibile dell’ordinamento, anche in un momento di crisi economico-finanziaria come quello attuale (ex multis, Corte costituzionale sentenza n. 275 del 16 dicembre 2016). Come è stato sottolineato dalla giurisprudenza costituzionale[7], diviene necessario quindi “separare il fabbisogno finanziario destinato a spese incomprimibili da quello afferente ad altri servizi sanitari suscettibili di un giudizio in termini di sostenibilità finanziaria”: nel momento in cui ci si trova di fronte alla scarsità delle risorse, la necessità di distinguere le spese attinenti ai diritti sociali da quelle che costituzionalmente necessarie non sono (ovverosia una “doverosa separazione del fabbisogno LEA dagli oneri degli altri servizi sanitari”), richiede di operare le necessarie distinzioni e graduazioni tra i valori da tutelare, privilegiando quelli attinenti al valore fondamentale della salute. Le Sezioni regionali della Corte dei conti avevano già messo in evidenza e denunciato la progressiva erosione delle risorse assegnate al fondo sanitario nazionale, che comunque non hanno finora minato il valore di un servizio sanitario che in alcune regioni ha raggiunto picchi di eccellenza mondiali, ma che può causare in concreto, secondo la indicazione fornita dalla Corte,  “la violazione degli artt. 32 e 117, secondo comma, lettera m), Cost., nei casi in cui eventuali disposizioni di legge trasferiscano “a cascata”, attraverso i diversi livelli di governo territoriale, gli effetti delle riduzioni finanziarie sulle prestazioni sanitarie costituzionalmente necessarie (in tal senso sentenza n. 275 del 2016)”[8].

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E allora in questa situazione emergenziale, nel descritto dilemma tra diritto alla salute e vincoli di bilancio, tra sanità e finanza, in cui vengono messi in pericolo beni fondamentali come quello descritto, in cui tuttavia la scala dei valori delineata dalla carta Costituzionale sembra senz’altro obbedire al vecchio brocardo secondo cui primum vivere, deinde philosophari, si è ancora una volta fatto ricorso – a più livelli – all’altro brocardo Necessitas non habet legem, sed ipsa sibi facit legem.
L’ordinamento certamente conosce strumenti per  derogare al diritto vigente al fine di far fronte a situazioni straordinarie, da affrontare e risolvere tempestivamente, tramite ordinanze (atipiche) il cui contenuto è determinato dall’autorità amministrativa in relazione alla situazione emergenziale determinatasi in concreto: l’esercizio di poteri contingibili è per sua natura un atto che contiene un termine finale, in quanto persegue soltanto lo scopo di garantire una tem­poranea tutela di specifici interessi pubblici.
Il significato da assegnare al provvedimento è pertanto quello di provvedimento temporaneo, in quanto legato a circostanze contingenti e destinato a cessare col cessare di esse, e, in quanto tale, presuppone la tem­poraneità come elemento coessenziale all’urgente necessità.
Del resto, si ricava dalla stessa locuzione “ordinanze contingibili ed urgenti’’ una caratteristica del provvedi­mento, e cioè l’essere esso legato a circostanze contingenti, ed essere quindi logicamente destinato a cessare col cessare di esse, a seguito o del venir meno della situazione di pericolo ovvero dell’adozione dei provvedimenti ordinari dell’autorità competente.
Orbene, va ricordato che numerose sono le fonti normative che in meno di due mesi hanno inondato il nostro ordinamento – tutte caratterizzate dall’urgenza per gestire l’epidemia di COVID-19. Nelle ultime settimane si è assistito alla emanazione di diversi provvedimenti normativi, scaturiti dalle norme contenute nel decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, tesi a fronteggiare la gravissima emergenza sanitaria da coronavirus, a seguito dei quali sono state prodotte numerose note esplicative finalizzate a rendere edotta la popolazione circa le misure ivi contenute. Va riscontrato che, tuttavia, le interpretazioni non sono state univoche, e che in alcuni casi quelle che da qualcuno sono state intese come raccomandazioni, sono state da altri illustrate come obblighi penalmente sanzionabili. I decreti del Presidente del Consiglio dei ministri rispettivamente dell’8, 9 e 22 marzo, in particolare, hanno inciso profondamente sulla libertà di circolazione, dapprima in un ambito territoriale limitato, poi in tutta Italia, richiamando l’attenzione di costituzionalisti ed opinione pubblica sul tema.

A monte di questa alluvione sta la dichiarazione dello stato di emergenza, proclamato con la delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020 (Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili), ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. c) del d.lgs n. 1 del 2018 (Codice della Protezione civile). La delibera del Consiglio dei Ministri dichiara che è in atto il tipo di evento emergenziale più grave tra quelli previsti dalla normativa sulla protezione civile: la lett. c) si riferisce infatti alle «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24». E l’art. 24 del d.lgs. 1/2018  prevede che con la dichiarazione dello stato di emergenza il Consiglio dei ministri autorizzi l’emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all’art. 25, che possono essere adottate «in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea. Le ordinanze sono emanate acquisita l’intesa delle Regioni e Province autonome territorialmente interessate e, ove rechino deroghe alle leggi vigenti, devono contenere l’indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere specificamente motivate». A ciò ha fatto seguito la prima delle numerose ordinanze adottate dal Capo del Dipartimento della protezione civile del 3 febbraio 2020 che, tra l’altro, all’art. 3, ha indicato una lunga serie di disposizioni che possono essere derogate per la realizzazione delle attività indicate nell’ordinanza stessa.
Ciò, senza dimenticare i decreti legge, successivi a quello già menzionato n. 6 del 23 febbraio 2020: tra i vari, i dd.ll. nn. 9, 11, 14, 18 e 19, oltre all’ultimo di cui si attende la pubblicazione ad ore in Gazzetta Ufficiale al quale si è riferito il Presidente del Consiglio dei ministri nel corso della conferenza stampa del 6 aprile 2020.

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Ma allora i problemi che si pongono sono almeno due. Il primo concerne, non già il fondamento necessariamente normativo del potere, quanto il contenuto dell’atto, stante il carattere eccezionale delle ordinanze in cui tale potere si esplica, che ne impedisce una definizione ex ante da parte del Legislatore, così che il successivo ed eventuale controllo giurisdizionale sulla legittimità non potrà usufruire di un preciso parametro legislativo. A complicare ulteriormente il quadro, è intervenuta una seconda stagione di ordinanze contingibili e urgenti emesse da autorità locali, con le quali sono state introdotte ulteriori specificazioni o restrizioni al regime omogeneamente imposto sull’intero territorio nazionale. Alcune di esse mostrano invero profili di criticità in ordine alla restrizione della libertà di circolazione, costituzionalmente garantita, anche oltre i limiti contemplati sebbene inserite in un contesto emergenziale di sicuro rilievo che, in linea di principio, come si cercherà di dimostrare, pur giustifica dette limitazioni, purché espresse nei limiti propri del potere di ordinanza. L’accurato articolo ricostruttivo di Scognamiglio e Foggia mira a dimostrare come, invero, la normativa statale voglia soprattutto esaltare gli elementi di autocoscienza e responsabilità, conducendo ad atteggiamenti autonomi ed attivi dei cittadini, prendendo in considerazione gli elementi di criticità che, in relazione precipuamente alla libertà di circolazione, alcuni tratti della normativa statale o regionale appaiono presentare.

In questo quadro assolutamente problematico, volto a paralizzare o interdire il potere di ordinanza locale, si inserisce il secondo quesito, inerente l’esercizio della sussidiarietà nell’ambito specifico e il suo rapporto in concreto con il concorrente principio di adeguatezza, anche in riferimento ai numerosi esempi che la prassi di questi giorni ci ha fornito: ne sono testimonianza le osservazioni svolte da Maurizio Lucca sui poteri di ordinanza del sindaco in materia “sanitaria” , che in linea ordinaria sono circoscritti a fenomeni ristretti nell’ambito comunale, ma che non possono ovviamente, pena la loro illegittimità, entrare in contrasto con le misure adottate dallo Stato.
Dunque, in presenza di un’emergenza sanitaria che seppure insorta nel territorio comunale, e, quindi, di competenza del sindaco, quando la sua estensione riveste i caratteri dell’extra territorialità, ovvero interessa un territorio di più comuni, al punto di andare ben oltre i confini regionali e nazionali, la competenza di adottare ordinanze contingibili e urgenti in materia di igiene e sanità pubbliche viene affidata al Ministro della salute, ai sensi del primo comma dell’art. 32 della Legge n. 833/1978.
Rossana Mininno, nel suo intervento, rammenta che nell’attuale quadro ordinamentale il Sindaco, ha il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare emergenze sanitarie o di igiene pubblica di carattere locale, ma che l’esercizio di tale potere, stante la sua natura (anche) derogatoria, deve avvenire nel rigoroso rispetto dei limiti enucleati dal Giudice delle leggi, tra i quali figurano inter multis i principi dell’ordinamento e la proporzione tra la consistenza dell’evento e le misure adottate. Presupposti normativi indefettibili legittimanti l’adozione dei provvedimenti contingibili ed urgenti sono l’eccezionalità, gravità e urgenza della situazione da fronteggiare, la contingibilità e la temporaneità degli effetti.

Orbene, c’è da chiedersi se l’anzidetta affermazione dei principi possa avere ancora ingresso nel nostro ordinamento, o se lascino spazio invece per interventi maggiormente incisivi. Le misure adottate a livello statale hanno, ovviamente, tentato di non determinare alcuna deroga alla Costituzione, che, provvidenzialmente, consente limitazioni proprio in occasione di eventi di tal genere. Ed, infatti, l’articolo 16 della nostra vigente Costituzione stabilisce: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche”. I Padri Costituenti, come si può evincere dalla mera lettura dell’articolo 16, posero, come prima eccezione alla libertà di circolazione e soggiorno nel Paese, proprio la “problematica sanitaria”. In tal senso, molto saggiamente, stabilirono che, nella scala delle priorità nazionali, per cui il Parlamento ed il Governo (legiferante in via d’urgenza) potevano interdire la libertà di movimento, vi era la salute di tutti i cittadini. A seguire le ragioni di sicurezza e, al secondo comma, venne scritto, in modo assolutamente chiaro, che in nessun caso si poteva determinare una coazione per ragioni di natura politica. Ancora una volta, la nostra Costituzione ci fornisce un rilevante monito di saggezza e di lungimirante preveggenza normativa: un diritto di libertà fondamentale, quale quello di circolazione, può essere compresso e limitato solo se è in presenza di una conclamata emergenza o di sanità pubblica o di sicurezza. Un monito di saggezza che non sembra essere stato raccolto dai Sindaci, i quali, pur a fronte di una situazione emergenziale e grave, hanno dato luogo ad un profluvio di ordinanze contingibili ed urgenti indubbiamente fantasiose ed, in diversi casi, illegittime. Ragion per cui, è dovuto intervenire il legislatore statale (art. 35, comma 1°, decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9), a comprimere, rendere “inefficaci” le ordinanze “contrastanti” con le misure statali. Un intervento assolutamente “nuovo”, che impone un ripensamento nei rapporti fra normazione statale e potere di ordinanza dei Sindaci e che lascerà sicuramente traccia nei medesimi rapporti, come sottolinea l’incisivo intervento di Massimiliano Alesio. Le pronunce dei Tar che si sono susseguite in questi giorni dimostrano la difficoltà di delineare confini sicuri nel rapporto tra livelli di governo che possono intervenire nella descritta situazione di emergenza; un problema che chiama in causa l’esercizio concreto della sussidiarietà stabilito all’art. 118 della Cost e che mette alla prova un principio spesso predicato ma molte volte non praticato (chi doveva acquistare le mascherine adeguate?). In realtà, più che di sussidiarietà verticale, segno di una scarsa efficienza soprattutto al centro, la sussidiarietà che abbiamo visto in azione è quella orizzontale, concreta, delle associazioni di volontariato, che affiancano la protezione civile per allestire i servizi di emergenza, coadiuvando le organizzazioni pubbliche,  e quindi, teso per definizione a favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati”, ovvero a favorire la partecipazione dei cittadini e delle formazioni sociali (imprenditoriali ed associative) nelle quali si svolge la loro personalità, ai sensi dell’art. 2 Cost., alla cura e al buon andamento della “Cosa pubblica” mediante “lo svolgimento di attività d’interesse generale”. Come è stato sottolineato, è la dimostrazione che al tradizionale modello solidaristico va progressivamente affiancandosi un nuovo modello di “cittadinanza attiva”, caratterizzato, in forza degli artt. 1, 2 e soprattutto 118 della Costituzione, dalla spontanea cooperazione dei cittadini con le istituzioni pubbliche mediante la partecipazione alle decisioni e alle azioni che riguardano la cura dei beni comuni, anziché dei pur rispettabili interessi privati, e che quindi, “cospirano alla realizzazione dell’interesse generale della società assumendo a propria volta una valenza pubblicistica, nella consapevolezza che la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva può concorrere a migliorare la capacità delle istituzioni di dare risposte più efficaci ai bisogni delle persone e alla soddisfazione dei diritti sociali che la Costituzione riconosce e garantisce” (Consiglio di Stato, sentenza n. 1546 del 6 marzo 2019).
Una sussidiarietà che, stavolta in una efficace simbiosi tra profilo verticale e profilo orizzontale, potrebbe svilupparsi anche in riferimento all’approntamento dei servizi associati a beneficio di questa emergenza: le unioni dei comuni sono, infatti, un momento fondamentale di utilizzo delle economie di scala e delle risorse umane e finanziarie, come evidenzia un esauriente scritto di Marco Mordenti, nonchè una analisi complessiva del fenomeno associativo da parte di Walter Tortorella.
Piuttosto, mi preme osservare che la Costituzione italiana non prevede l’ipotesi dello stato d’emergenza né quella, assai diversa, dello stato d’eccezione. Prevede solo lo «stato di guerra», che deve essere deliberato dalle Camere, le quali «conferiscono al Governo i poteri necessari» (art. 78 Cost.). Al di fuori di questa ipotesi, quando ricorrono «casi straordinari di necessità e d’urgenza», il Governo adotta decreti-legge, che devono essere presentati il giorno stesso per la conversione alle Camere, le quali, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni (art. 77 Cost.).
La dichiarazione dello stato d’emergenza è dunque fondata sulla normativa di rango primario adottata in materia di protezione civile.

Ma i provvedimenti restrittivi di questi giorni – a conferma della necessità di una evoluzione ordinamentale in chiave darwiniana e di un suo mutamento probabilmente irreversibile – raccontano anche del singolare utilizzo degli strumenti che l’ordinamento appresta (non sempre in modo impeccabilmente evolutivo: basti qui ricordare, in un mondo dominato da smartphones e dalla galoppante digitalizzazione, quanto successo con lo strumento dell’autocertificazione, in barba cioè ai principi enunciati dal Cad, nell’ambito e nel campo proprio della salute, interdetto in via generale proprio dalla previsione dell’art. 49 del Testo unico documentazione amministrativa), così che anche il funzionamento dei servizi viene a essere naturalmente stravolto e rivoluzionato dall’emergenza di questi giorni: ne diamo conto nell’ autorevole intervento di Riccardo Nobile che si occupa della possibilità di far svolgere le adunanze degli organi collegiali con strumenti digitali, esaminando la norma contenuta nel decreto legge 18/2020; ma anche dell’estensione oramai generalizzata dello strumento dello smart working per quel che qui rileva in ambito comunale, trattato nell’articolo di approfondimento di Angelo Capalbo.

La stessa consueta rubrica di carattere operativo dedicata all’attività consta non a caso in questa sede di due contributi: il primo di Margherita Bertin che propone un ordine di servizio relativo alle modalità di svolgimento delle attività “in presenza” al fine di contenere e contrastare la diffusione del Coronavirus; il secondo di Marzia Alban riguardante i criteri per lo svolgimento delle sedute di giunta comunale in modalità telematica.
In questo quadro ampiamente derogatorio delle libertà individuali, e di quel nocciolo fondamentale attinente alla protezione di dati afferenti la salute, ritengo che sarebbe stato interessante conoscere prima l’avviso del Garante della Privacy se, ad esempio, una app viola la sfera di protezione dei dati personali, come a quanto pare avviene in Corea del sud; oppure se gli ipotizzati prelievi sierologici siano lesivi degli interessi tutelati a livello individuale .
Il timore è che ci siano molte sperimentazioni, peraltro necessitate in questo periodo emergenziale, con notevoli esborsi finanziari, e che magari al momento decisivo le loro applicazioni concrete o la loro attuazione siano stoppate – anche in corso- dalla valutazione del Garante della Privacy. In questi casi infatti l’emergenza chiama all’appello, a lavorare sullo stesso terreno, come invocato dallo stesso Capo dello Stato, le varie componenti della Repubblica, evitando sprechi di tempo e arroccamenti, e magari agendo più che con singole interviste, con provvedimenti a monte. L’esigenza di certezza e di rapidità procedimentale richiede anche questo.
In ogni caso, ci viene ricordato in questa sede con l’articolo di Modafferi la indefettibilità – anche in questo periodo emergenziale – degli obblighi di pubblicazione della Pubblica amministrazione funzionali alla tutela di valori che l’ordinamento ha di mira in funzione delle esigenze di prevenzione di fenomeni corruttivi.

Peraltro, alla luce delle considerazioni svolte in precedenza, si potrebbe azzardare una interpretazione evolutiva delle possibilità limitative,  ai sensi del citato art. 16 Cost., della libertà individuale di circolazione per ragioni di sanità che possa andare a ricomprendere non solo la persona in sé ma anche i suoi dati, per via della stretta inerenza del dato alla protezione individuale: legittimando cioè un intervento limitativo in materia di tutela dei dati personali solo se giustificato e di stretto contemperamento con le esigenze di tutela della salute. È un quesito che rimane aperto e che potrebbe aprire varchi non marginali nella sfera di libertà individuale, ma proprio per questo richiede risposte urgenti.

Buona lettura

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NOTE

[1] Corte costituzionale, sentenze n. 139 dell’8 maggio 2009, n. 237 del 24 luglio 2009 e n. 180 del 9 luglio 2013.

[2] Corte costituzionale, sentenza n. 37 del 31 gennaio 1991.

[3] Cass. Cv., SS.UU. Sentenza n. 17461/2006. È altresì noto che (…) “ nel nostro ordinamento si rinvengono a fronte di situazioni soggettive a nucleo variabile – in relazione alle quali si riscontra un potere discrezionale della pubblica amministrazione capace di degradare (all’esito di un giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti) i diritti o gli interessi legittimi o di espandere questi ultimi sino ad elevarli a diritti -posizioni soggettive a nucleo rigido, rinvenibili unicamente in presenza di quei diritti, quale il diritto alla salute, che – in ragione della loro dimensione costituzionale o della loro stretta inerenza a valori primari della persona – non possono essere definitivamente sacrificati o compromessi, sicché, allorquando si prospettino motivi di urgenza suscettibili di esporli a pregiudizi gravi ed irreversibili, alla pubblica amministrazione manca qualsiasi potere discrezionale di incidere su detti diritti non essendo ad essa riservato altro se non il potere di accertare la carenza di quelle condizioni e di quei presupposti richiesti perché la pretesa avanzata dal cittadino assuma, per il concreto contesto nel quale viene fatta valere, quello spessore contenutistico suscettibile di assicurarle una tutela rafforzata” (Corte di Cassazione, Sez. Un. 17461/2006).

[4] Corte costituzionale, sentenza n. 80 del 26 febbraio 2010.

[5] Tar Piemonte, sez. II, 29 gennaio 2015, n. 157

[6] Ne deriva che, a fronte di una definizione normativa di uno specifico Livello Essenziale di Assistenza che appaia del tutto generica ed indetermina­ta, senza alcun preciso riferimento alle prestazioni che ne costituiscono il contenuto – come accade, nella specie, con riguardo all’astratta definizione di “assistenza tutelare alla persona” – l’interprete deve prediligere quel significato che sia maggiormente in linea con le istanze, di rilievo costituzionale, appena menzionate, al fine di non pregiudicare, in concreto, quel “nu­cleo irriducibile” del diritto alla salute che, in quanto diritto primario e fondamentale ai sensi dell’art. 32 Cost., domanda piena ed esaustiva tutela (così Corte cost., sent. n. 992 del 1988).

[7] Corte costituzionale, sentenza n. 169 del 12 luglio 2017.

[8] Corte costituzionale, sentenza n. 169 del 2017

 

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