Nelle ultime settimane si è assistito alla emanazione di numerosi provvedimenti tesi a fronteggiare la gravissima emergenza sanitaria da Coronavirus (COVID-19), a seguito dei quali sono state prodotte numerose note esplicative al fine di rendere edotta la popolazione circa le misure ivi contenute. Va riscontrato che, tuttavia, le interpretazioni non sono state univoche, e che in alcuni casi quelle che da qualcuno sono state intese come raccomandazioni sono state da altri illustrate come obblighi penalmente sanzionabili.
Il capostipite di questi interventi è stato il decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6, velocemente convertito in legge 5 marzo 2020, n. 13. La necessità di intervenire con fonte primaria discende evidentemente dai limiti posti in materia dall’art. 16 della Costituzione che, nel tutelare la libertà di circolazione e di soggiorno, prevede che le limitazioni cui esse possono essere sottoposte debbano essere appunto stabilite per legge. Il d.l. 6/2020 vuole rappresentare dunque la base giuridica sulla quale poggiare successivi interventi di natura provvedimentale. Emanato all’indomani della individuazione delle cosiddette “zone-focolaio”, il d.l. in esame sembra muoversi inizialmente nella logica di limitazione degli spostamenti riguardanti zone precisamente individuate, ma consente il progressivo ampliamento dell’ambito territoriale di applicabilità delle misure di contenimento da emanarsi. Ad esso hanno fatto seguito già sette D.P.C.M.. I decreti dell’8 e 9 marzo, in particolare, hanno inciso profondamente sulla libertà di circolazione, dapprima in un ambito territoriale limitato, poi in tutta Italia.
Il primo di essi riguardava esclusivamente la Regione Lombardia ed alcune Province, ivi prevedendo il radicale divieto di “spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita” nonché “all’interno dei medesimi territori” e consentendo unicamente “gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute”. Il divieto di spostamento è assistito dalla sanzione penale di cui all’art. 650 c.p., il quale come noto sanziona la mancata osservanza di un ordine legalmente impartito dall’Autorità. In quanto norma penale in bianco, la sua legittimità costituzionale si regge sulla determinatezza dei provvedimenti, emanabili solo per “ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene”.
Ci si è tuttavia interrogati circa la liceità costituzionale di misure tanto restrittive della libertà di circolazione emanate per mezzo di un D.P.C.M.. Prima di entrare nel merito occorre però considerare gli effetti del successivo decreto del 9 marzo, che ha ampliato l’ambito di applicazione del precedente a tutto il territorio nazionale. L’estensione del divieto di “spostamento all’interno dei medesimi territori” pone il dubbio circa la delimitazione che tali territori debbano assumere ai sensi della disciplina in esame. Ci si chiede infatti se, attraverso tale norma, il decreto miri a impedire gli spostamenti: a) all’interno di ciascun territorio comunale; b) tra una Provincia e l’altra; c) tra un Comune e l’altro.
Le interpretazioni dell’obbligo generalizzato di permanenza domiciliare
La prima interpretazione, evidentemente molto più restrittiva, considera come eccezioni alla regola quelle norme che contraddirebbero l’esistenza di un obbligo generalizzato di permanenza domiciliare. Sembra comunque molto difficile conciliare questa lettura con la sussistenza della previsione che fa “divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al virus” (art. 1 co. 1 lett. c del D.P.C.M. 8 marzo) e che pare dunque implicare che tale divieto assoluto non è per chi non sia sottoposto alla misura. Si consideri poi che le norme contenute nel D.P.C.M. dell’11 marzo consentono di mantenere l’apertura, seppure regolamentata, di numerosi esercizi, presso i quali evidentemente ci si può recare senza che ciò rientri nelle eccezioni rappresentate da motivi di salute, lavoro o necessità, a meno di non voler allora considerare tale “necessità” come una formula così elastica da porre a questo punto nel nulla ogni divieto.
La seconda interpretazione, la più estensiva delle tre, poggia sulla considerazione che ad ambiti territoriali provinciali e regionali si riferiva il precedente D.P.C.M. dell’8 marzo, e pertanto provinciale sarebbe l’ambito implicitamente mantenuto dal nuovo decreto.
Più fondata, nello spirito che anima questa legislazione d’emergenza, sembra tuttavia essere l’ipotesi mediana, che vieta gli spostamenti da un Comune all’altro, in quanto tale è l’ambito territoriale espressamente individuato dal d.l. 6/2020, che per l’applicazione delle misure restrittive consente di prevedere il divieto di allontanamento da un Comune o da “un’area”. Il che chiarirebbe anche l’inciso del D.P.C.M. 8 marzo che, riferendosi a Province e Regioni, applica il divieto “all’interno dei medesimi territori”. L’interpretazione migliore sembra allora quella che, almeno a far data dal 9 marzo, implica il divieto di spostamento dal Comune.
I due D.P.C.M. scontano in ogni caso, come visto, una certa indeterminatezza anche sotto il profilo delle eccezioni. A ben vedere dunque lo scopo di questi provvedimenti sembra per ora essere più quello di persuadere che quello di sanzionare, ed alcune disposizioni ivi contenute possono essere inquadrate facendo riferimento al concetto di soft law, ossia il ricorso a norme ad efficacia non vincolante, dettato in genere dall’esigenza di creare una disciplina flessibile, in grado di adattarsi ad una situazione in rapida evoluzione.
Per quanto invece attiene alle sanzioni vere e proprie, è stato sollevato qualche dubbio di liceità in relazione alla proporzionalità delle misure contenute nei D.P.C.M.. A personalissimo avviso di chi scrive, le misure possono essere considerate proporzionali in relazione alla gravità della situazione ed al diritto alla salute, parimenti tutelato in Costituzione, che dette misure intendono salvaguardare. Sembra d’altra parte potersi nutrire qualche perplessità sulla capacità stessa di deterrenza di tali sanzioni, consideratane la modesta entità.
I poteri degli amministratori
Al momento, dunque, non esiste nessun obbligo generalizzato di permanenza domiciliare che sia assistito da sanzione, ma si punta piuttosto ad un adeguamento spontaneo a norme di carattere etico e profilattico, rafforzato da specifiche misure sanzionatorie (essenzialmente il divieto di assembramenti e di spostamenti in alcun modo motivati al di fuori del proprio Comune) che non sembrano esorbitare dall’ambito di ragionevolezza. A chi voglia osservare che la riserva di legge contenuta dall’art. 16 Cost. è riserva assoluta, da cui discenderebbe l’illegittimità del d.l. 6/2020 nella misura in cui delega ad una fonte secondaria la definizione delle sanzioni, si può obiettare che è lo stesso art. 16 a prevedere un’attuazione da parte dell’Autorità, quindi un’attività amministrativa, e che la delega contenuta nel decreto legge ha allora lo scopo di creare un passaggio intermedio di regolamentazione anche a fini di omogeneità sul territorio nazionale (esigenza questa che si è avvertita pressante in seguito alla prima stagione delle ordinanze regionali che, spesso disorganicamente, erano intervenute a porre limiti e divieti in data antecedente all’intervento governativo) ed in quanto tale appare difficilmente censurabile nel contesto emergenziale che si sta vivendo.
È appena il caso di rilevare che non ancora tutte le misure prevedibili ai sensi del d.l. n. 6/2020 sono state effettivamente applicate, sebbene siano intervenute oltre ai D.P.C.M. anche ordinanze regionali e comunali. A tale proposito va preliminarmente rammentato che i poteri di ordinanza in subiecta materia (confermati dall’art. 3, co. 2, del d.l. n. 6/2020) sono ammessi in via generale per i presidenti delle Regioni dall’art. 32 co. 3 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, e per i sindaci dall’art. 50 co. 5 del TUEL.
Sfruttando tali facoltà, gli amministratori locali hanno operato ulteriori specificazioni al regime imposto sull’intero territorio nazionale. Nella maggior parte dei casi, queste ordinanze si limitano a chiarire la portata dei divieti, ma talvolta presentano ulteriori restrizioni, prevedendo ad esempio (per ciò che qui interessa) la chiusura dei parchi, delle ville e delle aree di gioco recintate, o la specifica che le uscite sono consentite solo per il tempo strettamente necessario ed in spazi contigui alla propria abitazione. Nel confermare implicitamente l’assenza di un divieto di permanenza generale presso la propria abitazione, queste misure limitano in via di fatto la possibilità che questo si traduca in comportamenti vietati o comunque inidonei a contenere il contagio, e confermano altresì il particolare approccio, a metà strada tra soft law e provvedimenti d’urgenza, dove una sanzione lieve assiste un obbligo non definito in modo netto.
Conclusioni: soft law e responsabilizzazione del cittadino
Maggiori problemi potrebbero destare le disposizioni emanate dalla Regione Campania, che prevedono l’obbligo assoluto di rimanere nelle proprie abitazioni (salvo eccezioni che ricalcano il regime generale) a pena ulteriore dell’obbligo di quarantena. In questo caso sembrano più leciti i dubbi circa la proporzionalità della sanzione, in relazione ad altri diritti compressi: si pensi solo al caso di coloro per i quali l’attività fisica rappresenta anch’essa un’esigenza per la salute (secondo l’OMS inattività fisica è il quarto più importante fattore di rischio di mortalità nel mondo). Nel momento in cui si scrive, sembra in effetti che sia già emersa la volontà di chiarire che l’ordinanza deve intendersi nel senso che sia consentita l’attività fisica, sempre rispettando la distanza di sicurezza di un metro.
Quali indicazioni si possono trarre dalle vicende che stanno caratterizzando l’evolversi della situazione? Senza volere addentrarsi in speculazioni sul cd. “diritto liquido”, che qui non avrebbero modo di essere sviluppate, si può certo rilevare come il governo della società moderna spesso imponga, e casi come questo lo dimostrano, di esaltare gli elementi di autocoscienza e responsabilità, conducendo ad atteggiamenti critici, autonomi ed attivi dei cittadini. La libertà è il potere di fare ciò che è bene, non ciò che piace.
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