Il ministro della funzione pubblica, Renato Brunetta, integrando la vigente legislazione sul rapporto di lavoro di lavoro dei dipendenti statali, ha previsto che non occorre che il codice disciplinare sia pubblicato in un luogo accessibile a tutti i lavoratori, basta che sia conoscibile attraverso il sito web dell’istituzione di appartenenza (art. 55, secondo comma, d.l. 165 del 2001, come sostituito dall’art. 68 del d decreto legislativo 150/2009). Tale previsione ha carattere imperativo e non può essere derogata dai contratti di lavoro. Per la validità di una sanzione disciplinare, a parte il rispetto degli altri requisiti di merito e di diritto, d’ora in poi non occorre più verificare che vi sia stata e continui a esserci la pubblicazione del codice in un determinato ambiente fisico. La Cassazione è andata oltre, e senza bisogno di modificare legislazione e norme contrattuali. Con una sentenza da poco depositata in cancelleria, la n. 11.250/2010, la sezione lavoro dell’alta corte ha stabilito che l’affissione del codice disciplinare non costituisce requisito essenziale per l’applicazione della sanzione disciplinare, quando l’infrazione riguarda «doveri previsti dalla legge o comunque appartenenti al patrimonio deontologico di qualsiasi persona onesta». Detto in altre parole, quando «l’illiceità della violazione, per l’evidente contrasto con la coscienza comune e con le regole fondamentali del vivere civile, [può] essere conosciuta e apprezzata dal lavoratore senza bisogno di previo avviso». La sentenza è stata emessa nei confronti di un lavoratore del settore privato ma il principio enunciato è estensibile anche al pubblico impiego, al quale, dopo la sua privatizzazione, si applicano le stesse regole. In particolare l’art. 7 dello statuto dei lavoratori, che rappresenta la fonte da cui derivano le diverse prescrizioni contrattuali aventi lo stesso contenuto o contenuto analogo: «Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti» (legge n. 300/1970). A suo tempo, una sanzione disciplinare, comminata nel rispetto del contraddittorio e motivata nel merito, poteva essere revocata dal giudice del lavoro, se accertava la mancata, preventiva pubblicazione del codice. E ciò è accaduto spesso nei quindici anni dal primo contratto scuola nei confronti del personale Ata della scuola (il codice disciplinare dei docenti non è stato ancora contrattualizzato), per il quale la norma relativa, l’ultimo comma dell’art. 95 del vigente contratto di lavoro, stabilisce addirittura che nessun’altra forma di pubblicità può sostituire l’affissione. Adesso, disposizioni imperative di legge e pronunce giurisprudenziali convergono in un unico punto, quello di ridurre le formalità preliminari all’instaurazione di un procedimento disciplinare. Il caso, preso in considerazione dalla Cassazione, riguarda un maître d’albergo, licenziato perché da oltre un mese non si presentava sul posto di lavoro per assumere servizio. Il licenziamento era fondato nel merito e lo era anche sotto il profilo del rispetto delle formalità richieste, ha sentenziato la Cassazione. I fatti sono stati regolarmente contestati, è stato accertato che effettivamente il lavoratore si era immotivatamente assentato né aveva dato accettabili giustificazioni. Se non ci si presenta sul posto di lavoro per un prolungato lasso di tempo e non si dà conto del proprio comportamento, si deve sapere che esso è sanzionabile, a prescindere da considerazioni su pubblicazione o meno del codice disciplinare.
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