Tutti dirigenti, tutti “stabilizzati”. Nella pubblica amministrazione, magari in barba alle regole costituzionali sui concorsi: nel contenzioso tra stato e regioni c’è anche questo. Una pagina poco nota ma esplosiva. Due casi concreti aiutano a capire. Primo fatto. Agosto 2009, regione Lazio, governo di centro-sinistra di Piero Marrazzo. Entra in vigore la legge regionale n. 22 sull’assestamento al bilancio 2009-2011. All’articolo 1, comma 52, si dispone che «i soggetti che previa una selezione di evidenza pubblica hanno ricoperto, per almeno cinque anni consecutivi, incarichi dirigenziali nelle strutture della regione e attualmente prestano servizio presso le stesse sono, a domanda, immessi nel ruolo della dirigenza della regione». Basta una domanda per diventare dirigenti? La presidenza del Consiglio (ottobre 2009) ricorre alla Corte costituzionale. Il comma 52, spiega, è illegittimo e viola gli articoli 3 (parità tra i cittadini), 51 (uguaglianza nell’accesso agli uffici pubblici) e 97 (accesso mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge, agli impieghi nella Pa). Nessuna legge può tradursi in «norme di privilegio», ridurre «le possibilità di accesso per tutti gli altri aspiranti, con violazione del carattere pubblico del concorso». La Corte costituzionale (siamo a maggio 2010) dà torto alle regione, giudicando fondato il rilievo di Palazzo Chigi. Deroghe ed eccezioni possono esserci per valorizzare esperienze professionali già maturate nella Pa, ma quest’area va delimitata in «modo rigoroso». Per casi numericamente limitati, a seconda delle specifiche necessità funzionali e comunque assicurando la professionalità necessaria. Evidente, secondo la Corte, la lesione del principio del pubblico concorso, visto che si autorizza il personale dirigente «assunto in via precaria a essere stabilizzato su semplice domanda senza alcuna giustificazione della necessità funzionale e senza alcuna valutazione della professionalità e dell’attività svolta da questi dirigenti». Tutti dirigenti e “stabilizzati”. Anche in Sicilia, secondo caso. La Corte dei conti regionale ha puntato il dito contro la moltiplicazione dei dirigenti. In Sicilia c’è un dirigente pubblico ogni 5,6 dipendenti su un totale di 20.642 dipendenti. La pianta organica del 1985 ne prevedeva in tutto 528, oggi sono 2.010, tutti a tempo indeterminato, più altri 32 dirigenti esterni (e ammonta a 7.114 unità il totale del personale esterno). Ora la pianta organica è stata rivista, ma non per i dirigenti. Siamo a 15.600 dipendenti rispetto ai 10.792 del 1984 e si sono così creati i presupposti per un incremento di 4.808 dipendenti a tempo indeterminato, pari al 45% del totale. È la «stabilizzazione» che, a giudizio del procuratore generale Giovanni Coppola, è dubbia sotto il profilo costituzionale e mortifica i giovani disoccupati ignorati «a beneficio di soggetti che senza concorso sono stati selezionati non per maggiore merito o intelligenza, ma solo in ossequio a logiche spesso clientelari». Bisognerebbe invece prevedere «concorsi aperti a tutti, con apposite quote di riserva a favore dei precari». Ciascun siciliano spende per il personale regionale (costo totale 1 miliardo 84 milioni di euro) 214 euro. Ha o no il diritto di avere personale qualificato e (meno) dirigenti all’altezza dei gravi problemi che vanno affrontati?
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