Mentre il legislatore si appresta a riformare il dettato costituzionale sulla libertà d’impresa, per consentire all’Italia di recuperare il gap accumulato negli anni rispetto ai paesi occidentali più virtuosi, a livello locale si moltiplicano gli ostacoli per chi vuole avviare un’azienda. Un reticolato di norme ideate per difendere le attività già esistenti, che frena la competitività nazionale. Niente nuovi bar a Verona. I limiti riguardano varie attività e professioni, comprese quelli più semplici. Per avere un’idea più precisa basta scorrere le segnalazioni avviate dall’autorità Antitrust al parlamento e agli enti locali di situazioni che contrastano con l’articolo 41 della Costituzione sulla libertà d’impresa. Se gli ostacoli nei comparti dell’energia e dei trasporti, della telefonia e delle banche ricevono frequente risalto sui media, lo stesso non avviene per altre attività. Così a Tirano (Sondrio) e a Verona non vengono concesse licenze per l’apertura di nuovi bar, con gli enti locali che si appellano al raggiungimento di limiti quantitativi. Limiti in varie località vengono rilevati anche sul fronte dei servizi aggiuntivi inseriti in musei e gallerie, come bar, ristoranti e bookshop. Oggi sono quasi sempre appannaggio di imprese pubbliche legate alla proprietà dei locali, creando così situazioni di «monopolio o di ingiustificato vantaggio competitivo». Il Garante per la concorrenza ha auspicato un’inversione di tendenza, con l’indizione di gare, da svolgersi secondo criteri selettivi e trasparenti e non discriminatori. Per insegnare sulle piste valdostane bisogna essere necessariamente residenti nei comuni della regione e occorre essere iscritti all’albo regionale che prevede un sistema di tariffe obbligatorie. Non c’è spazio nemmeno per aprire un nuovo stabilimento balneare in Calabria. La legge regionale, rileva l’autorità, non prevede l’utilizzo di procedure selettive, trasparenti, competitive e debitamente pubblicizzate. Insomma si procede per rinnovi delle concessioni esistenti, impedendo l’ingresso ai nuovi soggetti. Una corsa a ostacoli per avviare un business. Secondo l’ultimo rapporto Doing Business redatto dalla Banca mondiale, l’Italia si piazza al 78° posto su 183 paesi esaminati per la capacità delle normative di spingere all’avvio di un’azienda. In testa c’è Singapore, seguito da Nuova Zelanda, Hong Kong e Stati Uniti: tutti e quattro confermano il risultato del 2009 e per Singapore si tratta addirittura del quarto primato consecutivo, ottenuto grazie a nuove riforme per rendere più flessibile il mercato del lavoro e accrescere le tutele agli investimenti. L’Italia, invece, è ultima tra i paesi Ocse, pagando il combinato disposto tra scarsa capacità di far rispettare i contratti, pressione fiscale asfissiante e insufficiente protezione degli investimenti. Il dato peggiore lo registra l’indicatore relativo all’avvio di un’impresa: in un anno il nostro paese cede 21 posizioni (dalla 54ª alla 75ª), penalizzata non tanto dal tempo necessario per aprire una nuova attività (in media dieci giorni, contro i 13 della media Ocse), quanto dalla necessità di disporre di una capitale proprio importante. Una condizione che, fatalmente, penalizza soprattutto i più giovani e quanti non possono fornire sufficienti garanzie al mondo bancario. Nuove norme in vista. Intanto la manovra economica si appresta ad accogliere una serie di misure per aumentare la libertà d’impresa. Un emendamento del relatore Antonio Azzollini prevede l’introduzione della Scia, la segnalazione certificata di inizio attività, che andrebbe a sostituire tutti i regimi di autorizzazione, licenza e permesso che disciplinano l’avvio delle varie attività economiche. Tutti i controlli amministrativi saranno quindi svolti dopo la presentazione della Scia. L’emendamento autorizza il governo ad adottare uno o più regolamenti attuativi da emanare entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento