ROMA – La domenica mattina il sindaco è in ufficio. Siamo in piena estate, ma la stagione turistica invernale è dietro l’angolo. C’è da seguire il progetto del palazzo del ghiaccio e curare la manutenzione delle seggiovie. E poi la rete del gas, le centrali idroelettriche, i pannelli solari? Più che il sindaco, il primo cittadino di Ussita, 426 anime in provincia di Macerata, è l’amministratore delegato di un’azienda. Il bilancio del suo Comune è da leccarsi i baffi. Ogni anno entrano in cassa 6 milioni di euro: tre milioni e mezzo dalla produzione di energia elettrica, un milione dalla stazione sciistica, e qualche soldarello anche dalla gestione del gas. «Quando devo fare i conti», confessa Sergio Morosi, «non aspetto certo di conoscere quello che mi deve arrivare dallo Stato». Sfido: i trasferimenti pubblici non rappresentano che un quattordicesimo di tutti gli incassi. Morosi dice che questo si deve alla lungimiranza di un altro sindaco, Nicola Rinaldi, classe 1914, che fu deputato democristiano nel 1963 e del quale l’attuale primo cittadino è stato segretario. Fu lui a investire nell’elet-tricità. E ora si continua su quella strada. Sentite Morosi: «Stiamo acquistando un impianto fotovoltaico fuori dal territorio comunale. Cosa volete, se vogliamo finanziarci non possiamo che fare in questo modo. Diversamente i piccoli comuni sono destinati a sparire». E diversamente, si potrebbe aggiungere, Ussita non potrebbe nemmeno essere il Comune italiano con la spesa corrente pro capite più elevata (10.369 euro), ad eccezione di Campione d’Italia. E allora le multe. Inutile dire che nel panorama dei municipi italiani un caso così è piuttosto raro. Perché se Ussita ricava da attività per così dire «collaterali» addirittura l’86% dei propri introiti, superato anche qui solo da Campione d’Italia, le entrate indipendenti dalle tasse locali o dai trasferimenti pubblici incidono nei bilanci comunali mediamente per il 20%. Si tratta di voci che vanno dalle rette scolastiche ai trasporti, dai dividendi dei pacchetti azionari alle concessioni, fino agli interessi sugli investimenti finanziari. Vero è che con questi chiari di luna ciascuno si arrangia come può. Le contravvenzioni, per esempio. Secondo uno studio condotto dalla fondazione Civicum, è Firenze la città più severa con gli automobilisti indisciplinati. Nel 2007 ha incassato 134 euro per ognuno dei suoi 356 mila residenti. Una bella batosta, che ha portato nelle casse del capoluogo toscano 47 milioni di euro. Ma è niente in confronto a Roma, che ha intascato con le contravvenzioni quasi 320 milioni: 125 euro ad abitante, cifra che colloca i romani al secondo posto nella classifica dei più multati. Al terzo i bolognesi (119 euro ciascuno), per un introito municipale di 44 milioni, e al quarto i milanesi (106 euro). Mentre a Napoli, notoriamente una delle città meno disciplinate dal punto di vista del traffico, l’incasso delle multe si fermava a 65 milioni, cioè 66 euro per cittadino, meno della metà di Firenze. Per non parlare di Palermo: 49 euro. Ci sono poi Comuni che riescono a far fruttare bene i loro mattoni. Ma sono pochi. Qualcuno, al Sud, ci rimette. Una indagine del 2007 della Corte dei conti sul patrimonio edilizio della Campania (su dati del 2003) ha rivelato che il Comune di Napoli era stato capace di perdere 16 milioni pur possedendo decine di migliaia di unità immobiliari. E non è un caso che le classifiche dei municipi più poveri siano piene di località del Mezzogiorno. Esemplare il caso di Ravanusa, 12.819 anime a 50 chilometri da Agrigento: appena 171 euro a testa di entrate tributarie e 12 di extratributarie. Ma riceve 542 euro pro capite di trasferimenti dallo Stato e dalla Regione e spende 746 euro per residente. Più assistenza che efficienza, una distanza siderale dai comuni che sembrano aziende. Non solo la citata Ussita. Per molte amministrazioni, soprattutto al Nord, le aziende locali sono una vera manna. Brescia, nel 2008, con gli utili delle società municipalizzate ha incassato 84 milioni. Nello stesso anno Milano 105 milioni. Ma il capoluogo della Lombardia può contare soprattutto sui proventi dei servizi pubblici: 253 milioni. Al pari di Campione d’Italia, anche Venezia ha poi un autentico tesoro: il casinò, che nel 2008 ha fruttato circa 190 milioni. A Maiolati Spontini, paese con 5.979 residenti che diede i natali al compositore Gaspare Spontini, non ci sono invece né slot machine né roulette né tavoli da baccarà. Ma una discarica per rifiuti urbani e industriali che fa intascare al municipio qualcosa come 6 milioni l’anno, a dimostrazione del fatto che il denaro non ha odore. Maiolati è stato premiato dal ministero dell’Economia come il Comune più virtuoso d’Italia. Medaglia d’argento Sirmione, che può contare su consistenti entrate dell’Ici per la seconda casa ma anche sui ticket dei parcheggi: 3 milioni per ognuna delle due voci. «Il 70% di tutte le entrate correnti», ha spiegato il sindaco Alessandro Mattinzoli ad Antonella Baccaro del Corriere. E, gonfiando il petto: «Qui non si èmai pagata l’addizionale Irpef». In più, rispetto a Sirmione, Livigno (Sondrio) può godere dello status di zona franca, una calamita per il «turismo commerciale». Ma la graduatoria delle cosiddette entrate «extratributarie» delle città è guidata da Roma. Dove nel 2008, dice l’assessore al Bilancio Maurizio Leo, parlamentare del Pdl, «ai 70 milioni dei dividendi dell’Acea, che nel 2009 non ci sono stati, si sono sommate le entrate del condono edilizio». E veniamo ai tributi locali. L’abolizione dell’Ici sulla prima casa ha fatto comprensibilmente infuriare le amministrazioni comunali di tutta Italia perché hanno perso la fetta forse più grossa di autonomia impositiva. Quella che dovrebbero conquistare pienamente con la riforma federalista e il decreto legislativo ad hoc promesso dal governo, anche se i dati di bilancio dimostrano non solo che ci vorrà un fondo perequativo tra comuni ricchi e poveri, ma anche che per molti municipi, soprattutto nel Sud, la sfida della autonomia impositiva sarà dura: ci vorrà decisione nel chiedere le tasse ai compaesani e nel punire gli evasori. Non resta che la Tarsu. Per ora, oltre all’Ici sulle seconde case, che è stata risparmiata, restano, è vero, altre tasse: quella sui rifiuti, sull’occu-pazione degli spazi pubblici, sulle insegne e la pubblicità e l’addizionale Irpef. Quest’ultima però ogni tanto viene bloccata dal governo per impedire che la pressione fiscale salga troppo. Adesso è ferma da un paio d’anni. Tranne in un caso: quello di Palermo. Un anno fa, per tappare la voragine aperta dall’azienda dei rifiuti, il sindaco ottenne dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi un’ordi-nanza che gli ha consentito di raddoppiare l’addizionale dallo 0,4% allo 0,8%. Anche se pochi mesi dopo l’amministrazione ha deciso di fare retromarcia su una misura così impopolare. Va detto che per scelta alcuni Comuni non hanno mai voluto introdurre l’addizionale sull’Irpef. Come Milano, che però può contare su cospicue entrare «alternative»: per esempio, come si è visto, i dividendi delle imprese pubbliche locali. Il capoluogo lombardo, tuttavia, è dopo Torino quello che ha l’indebitamento pro capite più elevato. Secondo il ministero dell’Interno, nel 2008 ogni cittadino milanese aveva sulle spalle una esposizione con le banche e con la Cassa depositi e prestiti di 2.938 euro. I torinesi 3.450 euro, contro una media nazionale di 1.207. Al terzo posto, secondo la classifica pubblicata dal Sole24 ore, Siena, con 2.515 euro. Ma i senesi possono dormire sonni tranquilli: più della metà di quei debiti sono coperti ogni anno dai contributi della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, l’ente che controlla una delle principali banche italiane. Grazie a questo introito la città è al secondo posto nella graduatoria delle entrate extratributarie. Il combinato disposto dell’abolizione del-l’Ici prima casa e del blocco dell’Irpef ha avuto l’effetto di far lievitare la tassa sui rifiuti, l’unico tributo di una certa consistenza rimasto in mano ai sindaci. Lo scorso anno la Tarsu è salita mediamente del 23,1%. Una stangata di quasi 30 euro per ogni cittadino, che invece di 127,6 euro ne ha dovuti pagare 157,1. La botta più grossa l’hanno presa i beneventani, con un aumento del 70,2%. In quella città la tarsu è arrivata a 286 euro. Ma nemmeno a Napoli si scherza: 203 euro, con un aumento del 50,4%. Con quali risultati si sa.
Centrali elettriche e casinò. Se il Comune fa l’azienda
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