Fuori dal cancello, sul citofono, c’è ancora il nome della Acron. Ma non occorre suonare per capire che qui, nel cuore dell’area industriale di Bazzano, sulla strada che dall’Aquila porta alla funivia del Gran Sasso, da un pezzo non si assemblano più computer. Al posto degli operai ci sono gli studenti, e al posto dei reparti ci sono le aule: da due anni il grande capannone grigio è diventato sede della facoltà di Lettere e filosofia. Una bella differenza, rispetto alle aule e ai corridoi trecenteschi di palazzo Camponeschi, dove molto – a parte i puntelli, le crepe sui muri, lo spesso strato di polvere che si è posato sulle scrivanie – è rimasto come l’avevano lasciato la sera di venerdì 3 aprile 2009, tre giorni prima del terremoto che ha devastato la città. Analoga sorte è toccata ai 4mila aspiranti ingegneri: prima stavano a Roio, in una sorta di eremo tecnologico a dieci chilometri dalla città. Gli edifici sono ancora in piedi, ma il terremoto li ha resi inagibili. E gli studenti stanno a valle, tra l’autostrada e il centro commerciale L’Aquilone. A loro è toccata la Optimes, dove fino al 2005 si stampavano compact disk e dvd. Sbiadita, l’insegna si legge ancora sul capannone grigio e rosso. Dentro è più che dignitoso, ma in 4.500 qui dentro proprio non ci si sta: le aule sono piccole, spesso non ci sono i banchi, e se un professore alza la voce si sente anche al di là del muro. Un disastro? «No, poteva andare molto peggio. Però ci spaventa il futuro, perché siamo in una situazione transitoria che sembra destinata a non finire mai», dice Michele Di Biase, tra i coordinatori dell’Udu aquilana. «E la prova del nove arriverà nel 2012, quando si dovrà di nuovo pagare le tasse». Già, perché finora le iscrizioni sono state gratis, così come la circolazione sui mezzi pubblici. Anche così, di fatto, l’università ha retto: se nell’autunno 2008 gli iscritti erano 24.700, l’anno dopo l’emorragia è stata contenuta a poche centinaia studenti, mentre oggi siamo a quota 22mila (ma il dato è parziale). E tra un anno e mezzo? Nessuno lo dice apertamente, ma il timore è di ritrovarsi dimezzati: 10-12mila studenti. Questo sì che sarebbe un disastro, e non solo per l’università. Perché «prima del terremoto l’ateneo era la prima industria del territorio: gli studenti tenevano in piedi l’economia, soprattutto gli 8.500 fuori sede», come ricorda il rettore Ferdinando di Orio, senatore ai tempi dell’Ulivo, dal suo ufficio nell’alta scuola intitolata a Guglielmo Reiss Romoli. La struttura realizzata negli anni 70 e che oggi l’università affitta per due milioni di euro l’anno, è uno dei tanti simboli della costosa provvisorietà in cui vive l’ateneo: qui, sulla collina di Coppito c’è il rettorato, la facoltà di Economia, e alcune unità abitative, l’anno scorso assegnate a 200 studenti ma poi chiuse a chiave per motivi di sicurezza. «Le riapriremo l’anno prossimo», assicura Francesco D’Ascanio, commissario dell’Adsu, l’azienda straordinaria per il diritto allo studio, che promette «più di mille posti letto entro 2-3 anni». Ai quali ci sono da aggiungere i 120 della San Carlo Borromeo, donata dalla Regione Lombardia, in questi giorni finita al centro di polemiche perché la Regione Abruzzo ha scelto di assegnarla alla Fondazione Giorgio Falciola, vicina a Cl. Vita dura per gli aquilani, vita triste per gli studenti. Che spesso preferiscono farsi due ore di autobus al giorno piuttosto che abitare in città. «Si vive troppo alla giornata, e non si ha il coraggio di pensare all’Aquila del futuro», dice ancora il rettore. Che vede la sua università schiacciata: dagli scontri politici, dai tempi incerti, dai fondi che non arrivano o sono vincolati a opere non sempre prioritarie. Un problema enorme, quello delle strutture. Perché senza i contenitori è difficile iniziare a pensare al contenuto. Compreso tutto ciò che sta germogliando dalle macerie di un territorio cresciuto per mezzo secolo a pane e università. «Non ci crederà, ma in questi ultimi due anni abbiamo avuto un’accelerazione dei brevetti depositati», racconta Marcello Alecci, docente di fisica e coordinatore del trasferimento tecnologico dell’ateneo: in portafoglio oggi ce ne sono 23, ma di questi sei sono stati depositati dopo il terremoto. Non solo: «I nostri nove spin-off godono di buona salute, e quest’anno finalmente siamo riusciti a organizzare di nuovo una business plan competition: abbiamo raccolto 14 idee di impresa, e alcune erano davvero interessanti», aggiunge Alecci. Segnali di fermento, tutt’altro che scontati per un’università che in due anni ha perso 150 studenti di biotecnologie, 300 di scienze e 500 di ingegneria. Come consolidarli? Avviando i 50 laboratori previsti dal protocollo d’intesa con cui Eni si è impegnata a investire 20 milioni, per esempio, o più semplicemente «con un incubatore», sospira Alecci. E qui una possibilità c’è: 2.500 metri quadrati ricavati nell’ex Italtel, da poco a disposizione di comune e provincia. Se si farà l’incubatore, la fondazione Carispaq si è dichiarata disponibile a gestirlo (e a finanziarne una parte), ma servono altri fondi, e nuove start-up. Aquilane, certo, ma non solo: «Siamo eccellenti in più campi, e queste eccellenze possono renderci un territorio capace di attrarre persone e idee, anche dall’estero», dice la preside della facoltà di Scienze, Paola Inverardi. Un sogno? Non è detto. Grazie a un accordo tra l’incubatore padovano M31 e due Sgr (Fondamenta e Vertis), proprio in questi giorni è partito un bando per l’insediamento di nuove imprese innovative all’Aquila: sul piatto c’è un finanziamento fino a 10 milioni da parte dei due fondi, chi è interessato ha tempo di farsi avanti fino al 31 maggio: «Sono ottimista, spero che con questa iniziativa possa partire una nuova fase», confida Inverardi. La ricostruzione, in fondo, passa anche di qui.
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