Il decreto sul federalismo regionale approvato gio-vedì scorso dalla Commissione bicamerale ripropone, sostanzialmente, il menù dei principali tributi già oggi disponibili alle regioni: Irap, addizionale Irpef, compartecipazione Iva, tasse automobilistiche. La riforma, è vero, riconosce qualche spazio di manovrabilità in più, ma introduce anche vincoli aggiuntivi. In particolare, l’Irap – nonostante si ribadisca la promessa di una sua sostituzione con altri tributi – ne esce pienamente confermata, a riprova del fatto che un’imposta di questo gettito (36 miliardi) non è facilmente sostituibile. Fino al 2013 non cambia nulla: per le regioni gli spazi di manovrabilità dell’aliquota in aumento restano congelati. Da quell’anno in poi, le regioni riacquistano autonomia di manovra sull’aliquota verso l’alto, sempre fino all’attuale tetto dello 0,92%, e soprattutto verso il basso con la possibilità di andare ben al di là dello 0,92% fino addirittura all’azzeramento del-l’aliquota complessiva. Una autonomia asimmetrica, dunque, in cui, nel caso di annullamento dell’Irap, la regione dovrà accollarsi totalmente il costo del mancato gettito, tagliando le spese o aumentando altre imposte e tasse, senza compensazioni da parte dello Stato. Ovviamente la riduzione delle aliquote è preclusa alle regioni che non abbiano i conti della sanità in equilibrio, per le quali continua a valere l’aumento automatico delle aliquote. L’azzeramento dell’Irap, vista la dimensione del gettito coinvolto, rappresenta, anche per le regioni più ricche (un gettito di più di 900 euro pro-capite in Lombardia!), uno scenario ben lontano dalla realtà. È quindi, più che altro, un effetto annuncio che ha l’obiettivo di mettere anche le regioni, insieme al governo centrale, nel mirino delle imprese quando richiedono con forza la cancellazione o la riduzione dell’Irap. La facoltà della regione di ridurre l’aliquota Irap al di sotto dell’ordinario 0,92% è comunque assoggettata a un vincolo alquanto bizzarro: possono tagliare l’Irap solo le regioni che non aumentano l’addizionale Irpef, l’altro strumento fondamentale della loro autonomia fiscale, più dello 0,5 per cento. Insomma, una regione non può finanziare una riduzione della sua Irap, per incentivare l’attività produttiva, attraverso un aumento della parte manovrabile della sua addizionale Irpef. Perché? Non è chiaro. Forse il governo centrale vuole evitare un trasferimento del prelievo regionale dalle imprese ai lavoratori, che potrebbe avere effetti redistributivi indesiderati e costi politici rilevanti (le imprese non votano, le persone fisiche sì) nella convinzione che i cittadini non riescano a separare la componente statale dalla componente regionale dell’Irpef. Resta il fatto che l’autonomia sull’Irap ne esce un po’ sofferente. Tuttavia, in modo vagamente schizofrenico, accanto a questa “sovranità limitata” sull’aliquota, il decreto dà alle regioni mano libera su un altro parametro dell’Irap, ancor più delicato, riconoscendo loro, questa volta senza limiti apparenti, la possibilità di disporre deduzioni dalla base imponibile. Si tratta di una previsione azzardata sotto vari profili. Se ulteriori interventi sull’Irap a livello nazionale appaiono auspicabili (in termini di esclusione graduale del costo del lavoro) non altrettanto è il “fai da te” regionale sulla base imponibile. Differenziazioni del-l’imponibile tra regioni aggraverebbero i costi di adempimento per le imprese oltre a rendere difficile la comparabilità dell’imposta, condizione essenziale per la determinazione della capacità fiscale standard che sta alla base del funzionamento della perequazione regionale.
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