«La riorganizzazione dei servizi idrici è stata un successo. Nei circa vent’anni dalla riforma, il settore ha visto enormi miglioramenti nei livelli di servizio per gli utenti e nella qualità dell’ambiente. Sono stati realizzati investimenti per decine di miliardi. Questo ha consentito per esempio la riduzione di un terzo delle perdite di rete e un miglioramento consistente degli scarichi e dell’acqua erogata all’utente. La regolazione economica ha consentito di ottenere tutto questo con tariffe di circa un terzo più basse di quelle che sarebbero potute essere». Bella storia, vero? Purtroppo non è l’Italia il paese descritto. Chi scrive è Cathryn Ross, capo economista dell’Ofwat, autorità nazionale indipendente dei servizi idrici in Inghilterra, in un articolo del novembre 2010, il cui titolo tradotto suonerebbe più o meno così: «Se la regolazione non è guasta, perché cercare di aggiustarla?». Anche in Italia sono passati quasi venti anni dalla riforma (1994), ma i risultati non sono affatto così positivi. Perché? Per quale motivo, nel settore idrico in Italia, le pianificazioni risultano carenti, il tasso di realizzazione degli investimenti è più basso di quanto atteso, le perdite sono altissime, le informazioni sulle gestioni sono assenti o opache, il rapporto con i cittadini a volte è conflittuale? Probabilmente, ciò è dovuto proprio al fatto che l’attività di supervisione e controllo da parte della pubblica amministrazione – la «regolazione» – dei servizi idrici in Italia è carente e non è adatta ad affrontare i compiti cruciali che le sono propri. In primo luogo, manca un’autorità nazionale indipendente di settore. Al suo posto c’è una Commissione nazionale, interna al ministero dell’Ambiente, che nonostante la professionalità e la buona volontà dei suoi componenti, è riuscita a produrre solo pochi interventi regolatori degni di rilievo. Con il risultato che la normativa secondaria di settore è oggi datata e inadeguata. In secondo luogo, è colpa della debolezza della regolazione locale, quella delle autorità d’ambito, sottoposte a conflitti di interesse che spesso ne paralizzano l’attività. A causa di una confusione mai risolta tra compiti politici e compiti tecnici. Nel frattempo, in mancanza di una regolazione autorevole e indipendente, la disciplina di settore viene definita a suon di sentenze – Corte costituzionale, Consiglio di Stato, Tar – innalzando la conflittualità di sistema. Di fronte a tali criticità, oggi la risposta del legislatore è tanto semplice quanto inadeguata: liberalizzare e privatizzare il settore e allo stesso tempo sopprimere le autorità d’ambito. Vale a dire: fare l’esatto contrario di ciò che l’esperienza nel mondo, e quella italiana in altri settori, come quelli energetici, ha dimostrato poter funzionare. La combinazione di queste due iniziative è in pieno contrasto con gli obiettivi di tutela della parte più debole, i cittadini, nei confronti di un’impresa industriale che opera in condizioni di monopolio. Non è un caso che i referendum abbiano ricevuto una così ampia adesione, a dimostrazione del fatto che i cittadini vogliono avere maggiori tutele da parte della pubblica amministrazione nella gestione di un servizio di tale importanza. Indipendentemente dal modello di gestione prescelto, che dovrebbe rimanere una opzione locale, la regolazione pubblica è l’unico strumento per evitare che si verifichino abusi da parte del gestore a danno dei cittadini. Solo una regolazione multi-livello, composta da una rete di agenzie locali e da un’autorità nazionale indipendente specializzata, potrebbe assicurare che, nel processo di industrializzazione e di crescita economica di questo settore, si garantisca in primo luogo la tutela dei cittadini e dell’ambiente. Parafrasando il titolo del’articolo di Cat-hryn Ross potremmo quindi concludere: «Se la regolazione dei servizi idrici in Italia è debole, perché aspettare ancora ad istituire un’autorità nazionale indipendente di settore?».
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