Il governo ha annunciato che proporrà misure concrete per il rilancio dell’economia. La notizia è che sembra che questa volta ci sia il consenso di tutti i protagonisti della politica economica. Il ministro Calderoli, in un’intervista alla Padania, ha detto che si tratterà di un «poderoso» piano di semplificazione, volto a dare «un altro duro colpo al centralismo della burocrazia, all’inerzia di regole fatte per bloccare e non lasciar vivere chi fa impresa e le famiglie» e ha sottolineato che riforme saranno «strutturali, perché durino e inneschino la ripresa». Pochi giorni prima il ministro Giulio Tremonti aveva parlato di imprese soffocate dai troppi controlli e «di oppressione fiscale che bisogna interrompere». Il fuoco era stato aperto dal Presidente del Consiglio che, nel discorso di apertura della campagna elettorale a Milano, aveva usato parole veementi contro le vessazioni fiscali cui sono sottoposte le imprese. I toni riecheggiano quelli della campagna di Silvio Berlusconi contro l’oppressione burocratica e fiscale. La natura e l’intensità del problema sono ben chiari al ministro dell’Economia, autore di un libro dal titolo significativo, «Lo Stato Criminogeno» del 1997. Come si legge sul sito www.giuliotremonti.it, in quel libro, Tremonti si domanda: perché in Italia è diffusa la corruzione? Perché l’evasione fiscale è così alta? Da dove nasce, in una parola, la criminalità diffusa, il disprezzo della legge praticato come sport di massa? La risposta è che se nessuno rispetta la legge è colpa della legge stessa. Se manca il senso dello Stato, la responsabilità deve ricadere sullo Stato. Tremonti descrive in questo modo il meccanismo infernale che regola la vita dello “Stato criminogeno”, lo Stato che produce i crimini: «L’estensione dello Stato causa la proliferazione delle leggi; la proliferazione delle leggi causa la moltiplicazione degli illeciti, reali o potenziali; la moltiplicazione degli illeciti causa, infine, prima la diffusione e poi la banalizzazione dei crimini». Molti sforzi sono stati fatti da questo Governo, su proposte dei Ministri Calderoli e Brunetta, nonché dai precedenti Governi per semplificare le leggi e migliorare la burocrazia e qualche risultato è stato ottenuto. Ma nel complesso è improbabile che la situazione sia migliore oggi che quindici o venti anni fa; certamente non lo è nelle classifiche internazionali stilate dalla Banca Mondiale e dall’Ocse. In Italia le regole rimangono mal fatte, spesso contraddittorie, non conoscibili, mutevoli. Non si sa quando e a chi si applichino. Le direttive europee, ormai la principale fonte di regolazione economica, vengono attuate con un sovrappiù di complicazione rispetto agli altri Paesi. L’amministrazione non aiuta a risolvere i problemi e a districarsi fra le norme; anzi è essa stessa fonte di problemi, lungaggini, incertezza. In caso di contenzioso, ben pochi ormai ritengono utile fare affidamento su una giustizia troppo lenta. Questo stato di cose distorce il mercato e la concorrenza, scoraggia l’innovazione e la voglia di fare investimenti. È fra le principali cause di quella bassa crescita dell’economia italiana che tutti lamentiamo. Prendiamo, fra le tante, la questione della ridotta dimensione delle imprese italiane. Una letteratura ormai assai ampia, promossa dalla Banca d’Italia, mostra che le imprese italiane sono piccole, non solo rispetto a quelle tedesche e francesi, ma anche rispetto, ad esempio, a quelle spagnole. E mette in relazione questa caratteristica con variabili cruciali per la crescita economica come la propensione all’internazionalizzazione o l’intensità dell’attività innovativa. Ma perché le imprese italiane sono piccole? Un pezzo della risposta sta certamente in un’infrastruttura giuridica che scoraggia la crescita delle imprese. La ragione fondamentale è che tipicamente una piccola impresa ha un ridotto numero rapporti, contrattuali ed extracontrattuali, con soggetti che conosce e con cui instaura un rapporto di fiducia: fornitori, clienti, soci, lavoratori. Per molti versi, nella piccola impresa la fiducia sostituisce le regole. Un’impresa grande ha invece una miriade di rapporti impersonali e deve affidarsi ad un sistema di regole ben funzionante. Le regole e la qualità del loro enforcement sono dunque cruciali per la crescita delle imprese. Come lo sono per l’attrazione di investimenti diretti dall’estero, su cui l’Italia continua ad essere in fondo alle classifiche internazionali. Si aggiunga un fatto non secondario: al crescere della dimensione e della visibilità dell’impresa cresce l’intensità e la frequenza dei controlli da parte delle più diverse autorità. Le imprese piccole sono oberate dal costo degli adempimenti burocratici, le grandi sono oberate dall’eccesso di controlli. Fare le regole e per farle rispettare in maniera equa sono funzioni essenziali di qualunque Stato. Ben venga dunque un decreto di semplificazione, ma ad esso deve seguire un’azione di governo pervicace, coerente, di lunga lena.
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