Dopo il «non possumus» della Corte dei conti, che a fine marzo ha bocciato l’idea del Comune di Roma di considerare superati i tetti ai compensi dei manager locali fissati dalla Finanziaria del 2007, a stretto giro la Capitale ha risposto con il taglia-stipendi. Ma non basta. La nuova austerity made in Campidoglio, scritta in una delibera di Giunta approvata mercoledì scorso, fissa per gli amministratori delle società partecipate che esercitano «funzioni esecutive» un tetto annuo di 350mila euro lordi: meno dei 493mila euro totalizzati nel 2010, per esempio, da Federico Bortoli, ad di Roma Metropolitane, ma comunque troppi per rispettare le regole imposte dalla Finanziaria 2007. Tabelline alla mano, in nessun caso si potrebbe andare oltre i 246.026 per i membri del cda, e i 281.172 per i presidenti dei consigli, al di là di qualsiasi delega operativa che la magistratura contabile considera in ogni caso compresa nel «trattamento omnicomprensivo» di cui parla la Finanziaria 2007 (si veda «Il Sole 24 Ore-Roma del 20 aprile). Il perno intorno al quale ruotano i calcoli è la busta paga del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che si ferma a quota 117.155 euro lordi all’anno: la regola impone ai manager delle partecipate di non superare il 70% dello stipendio del sindaco (82.009 euro, che possono salire a 93.724 euro nel caso dei presidenti dei cda, per il quali il parametro è l’80%). Superare queste cifre si può, soprattutto quando si hanno incarichi operativi, ma come dice la legge e ribadisce la Corte dei conti la cifra aggiuntiva non può essere «superiore al doppio del compenso onnicomprensivo» considerato dal primo tetto. L’indennità extra, quindi, può arrivare al massimo a 164.017 euro (187.448 euro per i presidenti), e non riesce quindi a portare la busta paga complessiva oltre i 246.026 euro (281.172 per i presidenti dei consigli); 100mila euro sotto il limite posto dalla nuova “stretta” della Giunta Alemanno. Non solo: le indennità extra possono essere concesse solo come «premio di risultato», e sono quindi riservate a chi produce utili e li scrive nel bilancio di esercizio. È il caso di Roma Metropolitane, che ha chiuso il 2009 con un utile di 1,2 milioni (il 72% in meno dei 4,4 milioni messi a bilancio nel 2008), ma non di Atac, dove negli ultimi due anni si sono succeduti tre amministratori delegati con stipendi sempre multipli degli 82mila euro previsti dalla legge. «Il provvedimento – spiegano dal Comune – tiene conto del parere della Corte dei conti», che comunque è «non vincolante». Vincolanti, però, sono i commi 725-728 della legge 296/2006 (Finanziaria 2007), dov’è scritta la regola del 70% e dell’eventuale indennità di risultato. A spulciare le delibere, del resto, si scopre che lo stesso Campidoglio è da tempo perfettamente consapevole del problema. Risale al 23 maggio del 2007 (Giunta Veltroni) una delibera che per attuare la Finanziaria imponeva agli stipendi tetti ancora più rigidi, che agli ad delle società più grandi non concedeva più di 164mila euro all’anno. La delibera, con saggezza involontaria, parlava di «totale teorico», e infatti gli stipendi reali sono rimasti su cifre assai lontane. «I 350mila euro – ribattono dal Comune – sono il livello medio dei grandi Comuni, che raggiungono anche punte di 480mila euro». Vero, e la stessa Corte ha riconosciuto come «ragionevole» l’esigenza di differenziare gli stipendi fra le grandi società e le piccole partecipate. La legge, però, è la legge.
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