Come evitare di pagare il sovrapprezzo sui biglietti dei musei di Roma, previsto per i non romani? La domanda si pone perché, da quest’anno, Roma Capitale (tale la denominazione ufficiale di quello che fino allo scorso anno era il Comune di Roma e che fu, in periodo fascista, il Governatorato di Roma) appioppa un supplemento di un euro a chi non risieda nell’Urbe e visiti un museo locale. Il balzello è stato introdotto in coincidenza con la tassa di soggiorno (pudicamente battezzata «contributo»), con piena gioia degli amministratori capitolini, in prima linea il vicesindaco Mauro Cutrufo, pimpante di allegria nel conteggiare le previsioni d’introiti specifici recati da tali salassi. Va da sé che siamo in piena contraddizione con i sempre proclamati princìpi del federalismo fiscale: vedo, pago, voto. Qui, chi viene tassato non vede, non vota e quindi non può giudicare (e punire) gli amministratori che lo gravano, perché non risiede ove gli strizzano il portafogli. In compenso, gli resta una funzione: pagare. Dunque, per evitare di farsi appioppare un euro in più se vuole godersi, poniamo, una mostra ai Musei Capitolini, il visitatore coscienzioso residente in Roma deve esibire un «valido documento che attesti la residenza». E qual è il documento più usato? Va da sé, la carta d’identità. Nasce un problema: se un cittadino cambia residenza e quindi, nel caso che c’interessa, si trasferisce in Roma, sulla carta d’identità continua a figurare la precedente residenza. Perché non procura di cambiare carta? Sembrerebbe facile, ma non può. Gli è vietato. All’origine del curioso divieto starebbe l’ancora vigente r.d. 635 del 1940, che regolamenta l’altrettanto vigente r.d. 773 del 1931, che poi sarebbe il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. L’art. 291 del regolamento così prevede: «La carta d’identità è esente da tassa di bollo. All’atto del rilascio o del rinnovo, i Comuni sono autorizzati ad esigere oltre che i diritti di segreteria, di cui all’allegato n. 5 del regolamento per l’esecuzione della legge comunale e provinciale, un diritto non superiore a lire una, esentandone le persone iscritte nell’elenco dei poveri. In caso di smarrimento, il duplicato della carta d’identità è soggetto al pagamento di doppio diritto». Il ministero dell’Interno ha così interpretato tale disposizione, con la circolare n. 24 del 1992: «Si osserva che l’articolo 291 del regolamento del t.u.l.p.s. prevede l’emissione del duplicato della carta di identità nella sola ipotesi di smarrimento della stessa, ipotesi cui si possono equiparare quelle della sottrazione furtiva e del deterioramento. Ne deriva che il legislatore non ha ritenuto necessario procedere al rilascio di un nuovo documento nel caso di variazione di quei dati che nulla hanno a che fare con l’identificazione della persona (_). Ne consegue che non alterano la suddetta funzione, il cambio della residenza, della professione, dello stato civile, ed è quindi del tutto superfluo, in tali casi, rinnovare la carta di identità». I Comuni, quando sono interpellati per la richiesta di una nuova carta d’identità che aggiorni la residenza, si trincerano sotto la circolare dell’Interno. Domanda spontanea: se non servono all’identificazione della persona, perché sono inseriti nella carta d’identità? Lasciamo stare la professione, elemento che tende a scomparire dalle carte d’identità; lasciamo stare pure lo stato civile; ma perché l’indirizzo deve restare, anche quando sia mutato? Tenuto conto del fatto che oggi la validità di una carta d’identità è decennale, un cittadino potrebbe cambiare anche tre o quattro volte la residenza, senza potersi dotare di un nuovo documento d’identificazione. Eppure il cambio di residenza sulla patente di guida viene agevolato dal ricevimento di un tagliando adesivo col nuovo indirizzo, che il titolare appone al documento. La scusa addotta dall’Interno pare scarsamente persuasiva. Non c’è, nel regolamento di attuazione del t.u.l.p.s., alcun divieto esplicito. Già lo stesso ministero amplia la norma, perché parifica allo smarrimento sia la sottrazione, sia il deterioramento. Non si capisce, poi, l’insistenza sulla funzione di mera identificazione che competerebbe alla carta d’identità. Anche la residenza ha una sua importanza, eccome. Sembra quasi che, inibendo il rinnovo di una carta d’identità in caso di nuova residenza, l’Interno abbia voluto fare una cortesia ai Comuni. Questi, infatti, sono ben lieti di proclamare il divieto di rilasciare una nuova carta d’identità per l’avvenuto cambio di residenza. Risparmiano sull’operazione burocratica: meno lavoro, meno spese. Che cosa può fare il cittadino? Deve ricorrere o a un falso o a un artifizio. Nel primo caso, finge di avere smarrito la carta d’identità col fastidio di una denuncia. Per evitare questo inconveniente, preferisce l’artifizio, ossia deteriora volontariamente il documento chiedendo poi l’emissione di uno nuovo. Perché mai, però, costringere il cittadino a eludere la norma? Chissà se sanno rispondere i ministri riformatori e semplificatori, Renato Brunetta e Roberto Calderoli, oltre che il titolare dell’Interno, Roberto Maroni.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento