Dalle big alle municipalizzate le partecipazioni sono 5.512

Azionariato pubblico. Quelle dirette sono 4mila

Il Sole 24Ore
28 Settembre 2011
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Le società partecipate da tutta la pubblica amministrazione sono 5.512 di cui 4.000 dirette e le rimanenti 1.512 indirette. È questo il dato inedito, non ancora definitivo, del censimento avviato dal Tesoro sulle partecipazioni azionarie e sulle spa possedute dalla Pa: un’operazione monumentale di ricognizione che si concluderà il prossimo gennaio. La mappa, come nel caso del patrimonio immobiliare pubblico, è il primo passo per poi procedere alla valorizzazione ed eventuale dismissione delle partecipazioni all’attivo del bilancio dello Stato. Stando a fonti bene informate, almeno il 20% di queste società è in perdita e difficilmente alienabile: ma la galassia delle rimanenti spa andrà sfoltita. E questo è un messaggio che verrà scandito a chiare lettere domani nel seminario sul patrimonio pubblico organizzato al Mef: un appuntamento che potrebbe dare l’occasione ad alcuni importanti Comuni di annunciare nuove operazioni in questa direzione. In molti casi, però, è stata finora proprio la mancanza di una conoscenza approfondita del proprio patrimonio a frenare il cammino delle valorizzazioni e dismissioni nel mondo della finanza locale. Il bacino di partecipazioni che fanno capo agli enti locali è sicuramente quello più prolifico di società controllanti e controllate le cui attività spaziano nei campi più disparati, dai servizi, alla finanza, alle assicurazioni, ambiente, cultura, sanità. Non a caso queste spa di emanazione pubblica, che hanno uno stato giuridico privato di società per azioni ma una logica di gestione molto politica, sono il bersaglio preferito di Confindustria quando denuncia il monopolio inattaccabile degli enti locali e la diffusione dell’inhouse, gli affidamenti diretti che contribuiscono a bloccare i processi di liberalizzazione. Tra queste partecipazioni molte sono le società, anche quotate, a maggioranza pubblica il cui business fa perno su concessioni affidate (spesso senza gara) da un Comune che è al contempo azionista di riferimento. Se annunci si possono prospettare in occasione del seminario da parte di amministrazioni locali a proposito di processi di liberalizzazione o privatizzazione, probabilmente tra questi ci sarà il bando di gara «innovativo» che «consentirà un sensibile vantaggio economico per le casse comunali» che il Comune di Roma ha messo sul sito un po’ alla chetichella lunedì scorso. In effetti non è un evento da poco: l’assessorato ai Lavori pubblici ieri si è vantato del fatto che in 40 anni è la prima volta che si mette a gara la concessione per la distribuzione del gas in una grande città. Un bando che ha un valore di 1,2 miliardi, in termini di fatturato che nei prossimi 12 anni il gestore della rete avrà con le tariffe. Il fatto un po’ singolare è il modo con cui si è mossa l’amministrazione capitolina: ha forzato sui tempi della pubblicazione del bando, muovendosi prima che fossero emanati i decreti ministeriali attuativi che dovevano stabilire i criteri generali dei bandi sulle concessioni del gas in tutto il Paese, a partire dai requisiti richiesti ai candidati. L’accelerazione del Comune di Roma di queste ore fa sospettare la necessità di far coincidere l’annuncio con il seminario di giovedì. Ma l’amministrazione capitolina è dovuta uscire allo scoperto prima per le polemiche montate sul fatto che la controllata Acea, interessata a quella gara, ne sarà esclusa a meno che non entri in una cordata con una quota di minoranza. Il Comune ha fissato requisiti (l’esperienza di gestione di un bacino del gas con almeno 1,2 milioni di clienti, qual è quello di Roma) che consentono di partecipare da soli soltanto operatori nazionali come Italgas (che sinora ha gestito quella rete, il cui valore è stato fissato in 850 milioni), gruppi esteri o fondi come F2i. Danneggiando così la controllata – che tra l’altro dovrebbe nel tempo essere privatizzata – il Comune sembra aver privilegiato chi avrà la forza finanziaria di fare rilanci più alti e aumentare quindi l’incasso in termini di canone per il Comune.

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