Stop all’appalto pubblico per l’azienda se uno dei soci frequenta un capozona della criminalità organizzata. E ciò anche quando il «colletto bianco» è incensurato e non risulta affatto indagato. L’interdittiva anti-mafia, infatti, è una misura cautelare di polizia e il giudice amministrativo cui si rivolge l’azienda che si è vista revocare l’affidamento non può entrare nel merito, come farebbe invece il collega del settore penale: il sindacato risulta invece limitato a verificare il significato che il prefetto attribuisce agli elementi di fatto individuati dalle forze dell’ordine e l’iter seguito per pervenire allo revoca dell’appalto. È quanto emerge dalla sentenza 5478/11, emessa dalla terza sezione del Consiglio di stato e pubblicata il 5/10/2011. Operazione trasparenza Lo stop imposto dal rappresentante del governo all’appalto «in odore» di mafia costituisce una misura preventiva che è diversa e ha una funzione distinta dalle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale. L’interdittiva antimafia serve ad anticipare la soglia di autotutela amministrativa per evitare possibili ingerenze criminali nella attività dell’impresa: ciò che preme all’amministrazione, innanzitutto, è accertare l’affidabilità della impresa affidataria dei lavori. Non contano, in questo caso, i rilievi probatori tipici del diritto penale. Insomma: l’alt del prefetto costituisce l’esercizio di un’ampia discrezionalità e tanto basta alla revoca dell’appalto. L’ufficio territoriale del governo effettua la sua valutazione sulla scorta di un mero quadro indiziario: assumono dunque rilievo gli elementi raccolti dalle forze dell’ordine ed essi sono sufficienti quando non è «manifestamente infondato» che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possono rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni. Dopodiché per l’imprenditore risultato vicino ai clan non c’è niente da fare: l’interdittiva antimafia non può essere annullata se il provvedimento non mostra elementi che possono evidenziare un deficit di motivazione, di illogicità e di travisamento, dal momento che il giudice di merito non ha sindacato di merito in materia. Rapporti opachi Il ricorso dell’azienda calabrese, nel caso risolto dal Consiglio di stato, è in parte rigettato e in parte inammissibile. Sono davvero inquietanti i rapporti di uno dei soci della compagine con alcuni boss della ‘ndrangheta: le forze dell’ordine individuano rapporti professionali e anche frequentazioni private e familiari, dunque un quadro di relazioni che va oltre lo stretto necessario in un contesto delicato come il comparto dei lavori pubblici nelle aree del Mezzogiorno inquinate dalla criminalità organizzata. E la giurisprudenza amministrativa è ferma nel ritenere i contatti rilevati dalle forze dell’ordine tra il vincitore dell’appalto e pregiudicati sospettati di essere «capibastone» delle consorterie mafiose risultano un adeguato presupposto per far scattare l’interdittiva antimafia, a patto che gli incontri non siano brevi, occasionali o addirittura casuali.
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