Si parte. Il percorso della riforma della contabilità pubblica, avviato a fine 2009, giunge oggi a un punto di arrivo. Diciamo di arrivo senza ironia, perché la decisione di prevedere un periodo di sperimentazione è un fatto importante e da sottolineare, dopo anni di norme approvate senza preoccuparsi del loro effettivo impatto e delle conseguenze concrete che avrebbero potuto avere. È positivo anche il fatto che si sia pensato di incentivare gli enti partecipanti, negando l’idea che si possano implementare riforme di questa portata a costo zero. Cambiare comporta un onere e questo è ancora più vero se si sperimenta qualcosa di incerto. Molto bene, ancora, che si sia scelto, anche se in modo un po’ ambiguo, di sperimentare l’intero pacchetto contabile e quindi contabilità finanziaria, contabilità economico-patrimoniale e bilancio consolidato. Vedremo come si svolgerà il tutto, ma non si può che apprezzare il metodo e il percorso, teso a cogliere le criticità dell’insieme anziché eccedere in gradualità. Meno fiducia, invece, ispira il contenuto di alcune scelte. Un primo punto: era davvero necessario cambiare i modelli di bilancio? Ci avviamo a modificare i bilanci di tutte le pubbliche amministrazioni italiane senza chiederci se questo servirà ad amministratori, dirigenti e consiglieri per decidere o per gestire in modo più efficace la cosa pubblica. Ma è accettabile un costo di apprendimento e finanziario enorme, se finalizzato solo ad avvicinarsi agli schemi di contabilità statistica europea (Sec95)? È una scelta normativa discutibile, destinata a creare un’inutile confusione. Peraltro la maggiore sintesi degli schemi comporta un ulteriore e silenzioso spostamento di poteri nei confronti dell’organo esecutivo, in un sistema in cui l’equilibrio dei poteri è già molto sbilanciato sul sindaco. Siamo certi che sia opportuno? Un secondo punto: cambiare il criterio di competenza finanziaria è una scelta importante e delicata, che offre l’occasione per dare luogo a una “operazione verità”, e questo in un sistema in cui per troppo tempo si è preferito buttare la polvere sotto il tappeto. La riforma offre quindi l’occasione per fare pulizia nei residui e andrebbe colta al volo. Purtroppo, il periodo di riequilibrio per ammortizzare le differenze di valutazione è appena triennale e non è sufficiente per avere un impatto sostenibile sul bilancio. Molto meglio sarebbe stato un periodo di rientro assai più lungo. Il terzo punto è collegato al precedente: manca una “contabilità del grigio”, ovvero un ordinamento per quegli enti che non sono in equilibrio sostanziale ma vorrebbero scoprire le carte senza per questo subire la gogna del dissesto. Possibile che nel quadro del federalismo in costruzione non si voglia affrontare questo problema, aprendo la strada al “caso per caso”? Si aiutano Roma, Palermo, Taranto o Catania, se e quando ci sono le risorse, ma si fa finta di non vedere quelle decine di Comuni che non riescono più a risollevarsi, e li si condanna al dilemma tra conti falsi o sanzioni che spesso puniscono i cittadini e non gli amministratori. Quarto e ultimo punto: bene il bilancio consolidato, ma non è il caso di dare agli enti la possibilità di sfruttare il prossimo biennio per chiudere davvero le società inutili? Giusto o sbagliato che sia, ciò non sarà possibile se, nonostante i vincoli di finanza pubblica, non si consentirà ai Comuni di farlo a condizioni ragionevoli, ovvero concedendo agevolazioni fiscali per riprendersi gli investimenti e neutralizzando ai fini del patto di stabilità l’assorbimento dei debiti e del personale nelle società da liquidare. Una riflessione su questi temi oggi si impone.
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