Fra i problemi nell’agenda di lavoro del nuovo Governo c’è anche il riordino della pubblica amministrazione, che da decenni continua a essere un rovello di tutti i governi, malgrado l’istituzione nel 1979, all’interno della presidenza del Consiglio, di un apposito dipartimento incaricato di promuovere la modernizzazione dell’apparato statale. Sennonché vischiosità corporative, resistenze sindacali, provvedimenti parziali o contraddittori hanno concorso, di volta in volta, ad affondare i progetti di riforma più incisivi. Di conseguenza, certi vizi e difetti atavici della nostra burocrazia sono diventati con il tempo ancor più gravi, essendosi moltiplicate frattanto le esigenze della collettività. Molto ci si aspettava perciò dal “piano industriale” enunciato nel maggio 2008 dal nuovo ministro per la Pubblica amministrazione e per l’innovazione, Renato Brunetta, che contemplava una serie di norme, iniziative e sperimentazioni per migliorare la qualità dei servizi e la produttività della pubblica amministrazione. Misure, queste, che vennero precisate da una legge del marzo 2009 in cui erano previsti a tal fine particolari incentivi, premi o sanzioni disciplinari. Da allora è stata intrapresa un’opera di monitoraggio e verifica per l’attuazione di queste direttive. E non sono mancati alcuni risultati, dato che la piaga endemica dell’assenteismo s’è ridotta, sia pur in termini non omogenei fra i vari settori, e l’avvio della digitalizzazione ha reso più trasparente l’attività degli uffici e consentito un risparmio nei costi dello Stato. Tuttavia molto resta da fare per rimuovere distorsioni, incongruenze e incrostazioni nell’ambito di una burocrazia come quella italiana, i cui standard di efficienza e rendimento figurano agli ultimi posti a livello internazionale. Quella della nostra pubblica amministrazione è infatti una macchina pachidermica e farraginosa, appesantita da un ginepraio di formalità, da un intrico di procedure opache e talora incerte, dalla frequenza con cui s’inceppano i suoi congegni operativi. Si spiega pertanto come l’esasperante lentezza nell’iter delle pratiche, per il loro rimbalzo da un tavolo all’altro, in merito a una singola delibera o un semplice parere, sia fra le cause che inducono tante imprese a traslocare oltre confine, dove si procede più alla svelta e senza eccessivi fardelli. Ma c’è un altro genere di anomalia, che provoca una deplorevole dispersione di risorse e opportunità, addebitabile all’incapacità e alla confusione della burocrazia, nonché a interventi frammentari o in ordine sparso di Regioni, Province e Comuni. È l’utilizzo solo in minima parte, soprattutto nel caso del Mezzogiorno, dei fondi strutturali ottenuti dall’Unione europea, sebbene servano espressamente da incentivo alle imprese e alla ricerca, al potenziamento delle infrastrutture e ad assecondare l’occupazione giovanile: ossia alla crescita economica. Fatto sta che dei 28 miliardi di cui possiamo disporre per il periodo 20072013 se ne sono spesi finora appena il 18% rispetto al 38% della Germania, al 37% della Gran Bretagna e al 30% della media Ue. Dopo che negli ultimi mesi si è cercato di correre ai ripari istituendo una cabina di regia presso la presidenza del Consiglio per coordinare l’impiego dei fondi comunitari in modo fruttuoso e in base a determinate priorità, il nuovo ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca, s’è impegnato ora a mettere a punto un “Piano d’azione” che risponda effettivamente a questi obiettivi e ne acceleri il conseguimento. Con il nuovo Governo sono emersi altri due segnali importanti come l’accorpamento dei ministeri dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture sotto un unico titolare; e l’intenzione del primo ministro Mario Monti di sbloccare il turnover per svecchiare una burocrazia da tempo ingessata e infiacchita. Ma proprio su questo fronte è dato prevedere, purtroppo, che molti saranno gli ostacoli da superare.
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