Tra le diverse prove di serietà offerte dal Governo Monti, ci si sarebbe potuti attendere anche quella di resistere alla retorica dilagante al grido di “aboliamo le Province”, formulando invece, in materia, una disciplina legittima e ragionevole. Non lo è, bisogna dirlo, il complesso delle disposizioni contenute nell’articolo 23 del decreto legge Salva Italia. Prevedere o meno l’esistenza di enti locali di governo a livello intermedio fra il Comune e la Regione, in tutte le Regioni o solo nelle maggiori, con quali dimensioni e con quali compiti, è un tema costituzionale. Lo è da quando, nell’Assemblea costituente, si discusse il progetto di Costituzione che prevedeva la soppressione delle Province come enti autonomi, con la nascita delle Regioni, e si decise per il loro mantenimento. La Costituzione, confermata sul punto dalla riforma del 2001, stabilisce che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Prevede che le Province, come i Comuni, sono “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”, titolari di funzioni amministrative proprie, fra cui “funzioni fondamentali” stabilite dalla legge dello Stato e altre conferite dalle leggi statali o regionali, e di “potestà regolamentare”; che hanno “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”, “risorse autonome”, “tributi ed entrate propri” oltre a compartecipazioni ai tributi erariali, in misura tale da “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”. Singole Province possono chiedere, “con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni interessate”, di essere “staccate da una Regione ed aggregate ad un’altra” con legge dello Stato. È evidente che le Province sono previste dalla Costituzione come enti di governo locale elettivi, con un proprio territorio. Si potrebbe cambiare tutto questo? Certo, ma con legge di revisione costituzionale, dopo un approfondito esame della situazione e delle diverse soluzioni possibili, e un adeguato dibattito (in Gran Bretagna formerebbero allo scopo una Commissione Reale). Il decreto Monti fa invece un’operazione surrettizia. Non sopprime formalmente le Province (ci mancherebbe altro, con legge ordinaria), ma di fatto sostanzialmente le svuota della loro natura costituzionale, nel visibilissimo intento di anticipare una riforma che le abolisca. Esso stabilisce che “spettano alla Provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale”; che lo Stato e le Regioni provvedono, entro il 31 dicembre prossimo, a trasferire ai Comuni o alla Regione le funzioni conferite alle Province dalla normativa vigente, e a trasferire del pari le “risorse umane, finanziarie e strumentali per l’esercizio delle funzioni trasferite”, lasciando alle Province solo il “necessario supporto di segreteria per l’operatività degli organi” della stessa. I Consigli provinciali, quale che sia la dimensione del rispettivo territorio, sono formati da non più di dieci (!) componenti eletti dai consigli dei Comuni (con quale livello di rappresentatività degli stessi Comuni, specie nelle grandi Province, è facile intuire), i quali fra loro eleggono il presidente della Provincia. A queste disposizioni si dovranno adeguare anche le Regioni ad autonomia speciale, che hanno competenza primaria in tema di ordinamento degli enti locali. Per le Province i cui consigli dovrebbero essere rinnovati nel 2012, si prevede il commissariamento fino al 2013 (quindi con un rinvio di un anno) e poi l’elezione con le nuove regole. In sostanza, il decreto legge realizza una vera riforma costituzionale, che però esula dalla competenza del legislatore ordinario (e quindi viola anche l’articolo 138 della Carta). Si tratta di una disciplina esposta a gravi obiezioni di illegittimità costituzionale; potrà essere, e auspicabilmente sarà, impugnata davanti alla Corte costituzionale dalle Regioni, fra cui, è ragionevole prevedere, soprattutto quelle grandi come la Lombardia, la cui realtà geografica, storica e sociale è la dimostrazione più palese della incongruità dell’idea di abolire semplicemente ogni livello intermedio di governo fra quello regionale (dieci milioni di abitanti) e quello dei 1.500 Comuni grandi, medi, piccoli e piccolissimi. Nel merito, l’attuazione del decreto si tradurrebbe in una grandiosa operazione di nuovo accentramento. Scontato che la costituzione di forme associative o di collaborazione fra Comuni, in grado di “ereditare” le funzioni provinciali, richiederebbe tempi lunghi e porrebbe grandi difficoltà, è facile prevedere che le funzioni oggi svolte dalle Province finirebbero nelle mani della Regione, con conseguenze assai dubbie in termini di efficienza, esiti di allontanamento delle amministrazioni dai cittadini, e perfino incremento dei costi (i dipendenti provinciali diverrebbero dipendenti regionali, con trattamento economico superiore rispetto all’attuale: un bel risultato per un decreto tagliaspese!). La cosa più singolare è che il legislatore statale ha invece totalmente omesso di operare nelle direzioni che pur gli erano aperte dal la Costituzione: incidere sulle dimensioni delle Province attuali, avviando processi di accorpamento dove negli ultimi anni sono andati moltiplicandosi i nuovi enti (la Lombardia è passata da 9 a 12 Province, la Sardegna da 4 a 8), e passare finalmente all’istituzione, nelle relative aree, della Città metropolitana (prevista dalla Costituzione) in luogo della Provincia, per far sì che il governo di questi territori sia rimesso a enti espressioni dell’intera popolazione e non solo di quella del capoluogo. Su tutto ciò, è urgente che sia chiamato a intervenire il giudice costituzionale, per fortuna meno esposto degli organi politici al vento di campagne sommarie e “impressionistiche”.
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