Proporre appello avverso ogni sentenza dei giudici del lavoro che riconosca ai dipendenti pubblici miglioramenti economici derivanti da progressioni di carriera. Questa è l’unica indicazione contenuta nella spending review in merito al lavoro pubblico, anche se molte sono le voci che circolano in merito a possibili interventi per licenziamenti o tagli alle retribuzioni.
La previsione contenuta nella direttiva approvata da palazzo Chigi e riferita espressamente alle sole amministrazioni statali (per gli enti locali vale ma solo come indicazione di principio) è, comunque, estremamente rilevante.
Da un lato, indica con chiarezza che gli enti pubblici debbono scongiurare il passaggio in giudicato di sentenze da cui possano derivare incrementi della spesa per stipendi non previsti. Dall’altro, la direttiva indirettamente conferma l’esistenza di un rilevante problema: la giurisdizione dei giudici del lavoro, non del tutto a conoscenza delle particolarità che differenziano il lavoro pubblico da quello privato, in primis la necessità di tenere sotto controllo la spesa pubblica, è probabilmente da ripensare. Molte volte le decisioni dei giudici del lavoro si sono rivelate destabilizzanti per il sistema del lavoro pubblico, come recentemente dimostrato dalle molteplici erronee sentenze che hanno dichiarato il comportamento antisindacale delle amministrazioni che doverosamente attuavano la riforma Brunetta.
In ogni caso, la necessità di evitare riconoscimenti giudiziali di progressioni di carriera, in altre parole di incrementi economici derivanti o dagli aumenti effetto delle progressioni «orizzontali» o dalle promozioni derivanti dalle progressioni «verticali», appare incontrovertibile, poiché dette progressioni hanno determinato per grande parte l’effetto che il costo del lavoro pubblico è aumentato negli ultimi dieci anni più del lavoro privato.
La relazione sul costo del lavoro pubblico 2011 adottata dalla Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo ha di recente dimostrato che dell’istituto delle progressioni le amministrazioni pubbliche hanno largamente abusato. La magistratura contabile ha espressamente sostenuto che «a partire dal 2001, il fenomeno delle progressioni orizzontali e verticali ha interessato pressoché tutti i comparti di contrattazione. I passaggi orizzontali hanno coinvolto, nel complesso, quasi i tre quarti del personale in servizio nel periodo 2001-2009; nel medesimo periodo ha beneficiato, inoltre, di progressioni di carriera il 40% dei dipendenti».
Le sezioni riunite evidenziano almeno tre storture. L’estensione estrema dell’istituto, tale da coinvolgere il 75% quasi dei dipendenti; il che non corrisponde certo al perseguimento dell’intento selettivo pur predicato dai contratti collettivi. I criteri per gli incrementi stipendiali non hanno tenuto conto del merito se non solo nella facciata dell’incremento, che avrebbe dovuto essere misurato e selezionato, puntando, invece, sulla mera anzianità. Infine, l’attivazione delle progressioni, non solo orizzontali, ma anche verticali, non ha avuto alla base la valutazione di necessità e conseguenti ricadute benefiche di carattere organizzativo, ma ha solo perseguito le aspettative del personale e, di conseguenza, delle organizzazioni sindacali.
L’indicazione della direttiva sulla spending review pare un primo passo per rimettere in discussione il meccanismo, comunque già congelato, per quanto riguarda le progressioni orizzontali, dal dl 78/2010, mentre le progressioni verticali sono state definitivamente eliminate dalla riforma Brunetta.
Certo, il principio costituzionale del pareggio di bilancio non solo impedirà lo sblocco della contrattazione, ma potrebbe essere effettivamente il presupposto per interventi volti a recuperare quanto meno parte delle risorse spese a causa dell’eccessivo largheggiamento delle amministrazioni in progressioni di carriera e orizzontali. In questo caso, non sarebbe sbagliato che la spending review affrontasse questo tema, per giungere all’auspicabile decisione di eliminare questi istituti e ripristinare la vecchia indennità di anzianità, largamente presente nella contrattazione privata.
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