Anche quest’anno il sondaggio di Ipr Marketing sul consenso ai sindaci e ai presidenti di regione insegna qualcosa. Forse più di altre volte perché la crisi economica ha colpito duro gli enti locali, ha messo in discussione antichi equilibri, ha obbligato a riconsiderare numerosi criteri amministrativi. Come se non bastasse, il vento degli scandali ha investito le regioni e ha scoperchiato parecchi tabernacoli. Due amministrazioni sono state travolte, nel Lazio e in Lombardia, una terza (il Molise) dovrà tornare alle urne. Una classe dirigente territoriale è sotto pressione, come se non più dei politici che agiscono a livello nazionale. E allora ecco le cifre che devono confermare o smentire giudizi e pregiudizi su come vengono ammministrate le nostre città e le nostre regioni. Al solito, la domanda del sondaggio è semplice e diretta: votereste di nuovo questo sindaco e/o questo presidente di regione? Il paragone è con il punteggio realizzato il giorno dell’elezione. Si può restare ai piani alti della graduatoria anche se si è perso qualche punto nel favore della popolazione, ma solo se si era stati eletti con una percentuale rilevante. Ebbene, cominciando dalle regioni, un’occhiata ai tabelloni ci dice che la crisi di credibilità successiva agli scandali non ha delegittimato né il personale politico né l’istituto in se stesso. È chiaro che la tempesta ha lasciato il segno e l’intero impianto del decentramento regionale andrà rivisto nella prossima legislatura: non già per annichilirlo e ritornare a un brutale centralismo, bensì per renderlo più vicino alcittadino e più in grado di erogare servizi a un costo contenuto, cancellando la vergogna degli sprechi palesi e occulti. E tuttavia l’istituto regge, così come la fiducia in una buona parte degli eletti. Il sondaggio dice che a metà circa della legislatura regionale otto presidenti godono ancora di una soglia di fiducia che garantirebbe loro la rielezione, se si votasse oggi. Sono i “governatori” di Toscana, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Liguria, Basilicata, Umbria, Campania e Puglia. Il consenso maggiore va al toscano Rossi, che mantiene (salvo una lieve limatura) il 59% di gradimento realizzato nel voto del 201o. Al secondo posto c’è un leghista pragmatico come il veneto Zaia, che ottiene il 58% e perde poco rispetto al 60,2 dell’elezione. Chiude questo ventaglio degli otto rieleggibili il pugliese Vendola, che agguanta un utile 50%, incrementando il 48,7 del 2010. Nel complesso sei presidenti di centrosinistra e due di centrodestra (oltre a Zaia, fra i primi otto c’è il campano Caldoro). Sotto la soglia critica del 50% ci sono Calabria, Friuli V.G., Piemonte, Abruzzo e Sardegna: tutte regioni amministrate dal centrodestra. Nel complesso possiamo dedurne che gli italiani vogliono che le regioni continuino a esistere, purchè sappiano innovarsi e anche correggere i propri gravi errori. Non è più tempo di un federalismo retorico e mal costruito, utile più a consolidare centri di potere antagonisti che a corrispondere alle esigenze dei cittadini. Speriamo che questo pro-memoria, ora che siamo alla vigilia delle elezioni politiche, giunga ad orecchie attente. Quanto agli amministratori comunali, i risultati sono ovviamente dettati da fatti, persone e circostanze che variano da luogo a luogo. In linea generale si può dire che chi, pur essendo al secondo mandato, riesce a mantenere un livello di consenso alto, merita una particolare menzione. È il caso del primo classificato, il salernitano De Luca, che realizza ben il 72 per cento. Ma non è da meno Flavio Tosi, sindaco di Verona, che al secondo mandato incrementa di un 8,7% (!) il dato del giorno in cui è stato rieletto nel 2012. Sono cifre rilevanti che testimoniano una verità: viene premiato chi è affezionato alla sua città, chi se ne occupa attraverso un duro lavoro sul territorio. Questa sembra anche la situazione di Giuliano Pisapia, peraltro al suo primo mandato, che a Milano risulta più popolare oggi del giorno in cui i suoi concittadini lo hanno eletto: più 4,9 per cento. Mentre Graziano Delrio, secondo mandato a Reggio Emilia, sale al 54,5 nonostante le fatiche del suo contemporaneo incarico come presidente dell’Anci, l’associazione dei Comuni. Ci sono anche esempi contrari che acquistano un valore politico che non si può non sottolineare. A Parma, ad esempio, impressiona la caduta di Pizzarotti, il sindaco eletto a sorpresa nel 2012 nella lista di Beppe Grillo. Tante attese, tante promesse di un nuovo modo di governare e oggi meno 7,2 nel consenso dei cittadini. Pizzarotti è ancora al 53%, ma l’impatto con la realtà è stato devastante. E poi c’è il caso di Palazzo Vecchio. Come è noto, uno dei nomi nuovi della politica italiana, il fiorentino Matteo Renzi, si è ritagliato un posto nel cuore dei “media” grazie ai brillanti risultati del duello con Bersani alle primarie del Pd: sconfitto con onore al secondo turno dopo un successo smagliante al primo. Eppure Renzi come sindaco di Firenze è stato retrocesso: dal 59,5% il giorno del voto all’attuale 52. Abbastanza per essere virtualmente rieletto, ma ben 7,5 punti persi per strada. Come mai? Molti sospettano che le ambizioni nazionali abbiano distratto – a dir poco – Renzi dagli impegni come amministratore comunale. Per lui è un campanello d’allarme da non sottovalutare. Al contrario il romano Alemanno, da tanti considerato sconfitto in partenza se si presenterà di nuovo per il Campidoglio, riesce a conquistare un 50% (meno 3,7) che non è poi male dopo le tragicomiche vicende della nevicata, lo scorso inverno.
Stefano Folli
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