Nelle relazioni scientifiche sono emerse le ombre di una legislazione che appare “simbolica” con un intento “moralizzatore” piuttosto che con l’obiettivo di garantire una reale ed efficace contrasto alla corruzione. Roberto Rampioni, ordinario di diritto penale a Tor Vergata, ha proprio evidenziato questa “stortura”: “Tutte le novità del penale si sono concentrate nelle fattispecie riconducibili al soggetto privato. Poco o nulla è stato fatto sul piano dell’introduzione di nuove fattispecie riguardanti la pubblica amministrazione. L’aver dato al diritto penale quasi una valenza moralizzatrice è stato sicuramente un tentativo maldestro che introduce una pericolosa discrezionalità dei giudici sul piano interpretativo”.
Francesco Iacoviello, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, ha tacciato le norme che riguardano i delitti di corruzione di avere una impronta “illiberale”. “La pubblica accusa rischia di non poter provare il fatto illecito; e, sull’altro versante, la difesa di non poter provare l’innocenza. Con l’aumento della discrezionalità riconosciuta al giudice”.
Alberto Gargani, ordinario di diritto penale all’Università di Pisa, pur esprimendo un giudizio meno tranchant in relazione alla necessità di por mano alla materia, ha ritenuto che comunque l’effetto sia quello di una “difficile gestione processuale. Il nostro sistema penale sta vivendo un periodo di transizione, di passaggio, il cui il concetto di corruzione assume confini sempre più ambigui e ibridi”.
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