La spending review di Monti continua a perdere i pezzi. E questa volta a cadere, sotto le picconate della Consulta, è lo scioglimento forzoso delle società strumentali degli enti locali che avrebbe dovuto compiersi entro fine anno con l’obiettivo dichiarato di ridurre la spesa pubblica.
In realtà, secondo la Corte costituzionale, la procedura escogitata dal governo dei professori non sta in piedi perché prende di mira le società che realizzano oltre il 90% del fatturato nei confronti dell’ente locale controllante (disponendone lo scioglimento ex lege entro il 31/12/2013) per non aver fatto altro che rispettare quanto previsto dalla legge. E cioè il divieto di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati in affidamento diretto o tramite gara. Un divieto che, imponendo alle società in house di concentrarsi esclusivamente «sull’attività svolta in forma privatistica per le pubbliche amministrazioni», punta a evitare che le società strumentali degli enti locali «approfittino del vantaggio derivante dal particolare rapporto con le p.a., operando sul mercato» e creando così «distorsioni della concorrenza».
In questo modo, gli enti locali e le regioni (che hanno impugnato in massa l’art. 4 del dl 95/2012) non hanno più autonomia di scelta sui modelli organizzativi da adottare nella produzione di beni e servizi e questo vìola l’art. 117 della Costituzione. Sulla base di queste motivazioni la Corte nella sentenza n. 229/2013, depositata ieri in cancelleria e redatta dal giudice Giuseppe Tesauro, ha scardinato la procedura della spending review che metteva gli enti locali davanti a un bivio: sciogliere le società strumentali entro fine anno o privatizzarle entro il 30 giugno 2013 (termine poi allineato anch’esso al 31/12/2013 a opera del cosiddetto «decreto del fare» ndr).
Contro l’aut aut imposto dal dl 95 si sono scagliate sette regioni (Lazio, Veneto, Campania, Puglia, Friuli Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia) tutte convinte di trovarsi davanti a una illegittima compressione delle prerogative regionali, oltre che a un nuovo giro di vite sugli affidamenti in house dei servizi pubblici locali ancor più restrittivo di quello abrogato dai referendum di giugno 2011 e riproposto con scarsa fortuna dal governo Berlusconi con il dl 138/2011 (dichiarato incostituzionale il 20 luglio 2012 proprio per aver violato il divieto sancito dall’art. 75 Cost., di far rivivere norme abrogate dai referendum, ndr).
La Consulta ha respinto questa tesi sottolineando come la norma oggetto del contendere escluda espressamente dal proprio ambito di applicazione le società che svolgono servizi di interesse generale di rilevanza economica. Tra cui rientrano i servizi pubblici locali, a cui dunque la stretta non si applica. Ciononostante, la Corte non può non rilevare come la disciplina contestata, «lungi dal perseguire l’obiettivo di garantire che le società strumentali non operino sul mercato beneficiando dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione», finisca per colpire «proprio le società pubbliche che hanno realizzato tale obiettivo». Per di più privando le regioni della possibilità di scegliere il modello di svolgimento dei servizi strumentali più idoneo.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento