Prima ancora del suono della campanella che questa settimana sancirà (giovedì 5 la prima sarà la Provincia di Bolzano) l’avvio dell’anno scolastico 2013-2014 nelle 43mila scuole italiane i bocciati ci sono già: sono i piani di edilizia scolastica, sei negli ultimi dieci anni, che non hanno centrato l’obiettivo che si erano dati dopo le tragedie di Rivoli e San Giuliano di Puglia.
La bocciatura è innanzitutto nei numeri, compresi quelli snocciolati dall’indagine conoscitiva sull’edilizia scolastica avviata dalla commissione Cultura della Camera a luglio: mettendo insieme le tante iniziative (per contare solo le principali), avviate proprio a partire dal tragico crollo di San Giuliano in cui morirono 27 bambini e una maestra, si arriva a un miliardo e mezzo di risorse stanziate per mettere in sicurezza gli edifici. A fronte di un fabbisogno di 13 miliardi. Attenzione: si tratta di una stima, perché in materia di edilizia scolastica non sono solo i fondi a ritardare, visto che – come scrivono i parlamentari stessi – «dopo 17 anni dalla legge 23 del 1996 l’Anagrafe stenta non solo a partire, ma anche a essere completata».
Tredici miliardi sono quelli che servirebbero, secondo il ministero delle Infrastrutture sulla base della classificazione sismica del nostro territorio, per mettere in sicurezza le scuole: 1,6 miliardi solo nella zona sismica 1, la più a rischio-terremoti.
In realtà ne sono stati stanziati solo 1,4 dal 2004. Una cifra minima, peraltro dimezzata rispetto al passato. Dal 1996 al 2001, infatti, in soli sei anni furono finanziati 12mila interventi per un totale di tre miliardi. Grazie alle legge 23/1996, che a detta della stessa commissione Cultura «ha ben funzionato» con un sistema di pianificazione che partiva dal basso, dalle richieste degli enti locali, filtrate tramite graduatorie regionali e poi finanziate con contributi statali.
Ma a sancire la bocciatura di questa strategia degli ultimi dieci anni c’è anche il risultato finale: su 1,4 miliardi programmati a oggi soltanto 120 milioni si sono trasformati in scuole ammodernate e sicure. In pratica, solo l’8,3% del totale, anche se – va detto – il dato non tiene conto dei 226 milioni stanziati per l’Abruzzo, sui quali la Camera ha chiesto una rendicontazione precisa. Sommando poi la dettagliata fotografia di ogni piano fornita dai tecnici delle Infrastrutture, si scopre che altri 630 milioni sono in via di utilizzo: si va dal cantiere già aperto alla semplice firma della convenzione che permette di accendere il mutuo. C’è, infine, la non trascurabile somma di 467,9 milioni bloccata. Per esempio, dal 2006 restano ancora da spendere quasi 80 milioni su 295. Ovviamente il più indietro è l’ultimo stanziamento, il secondo piano stralcio varato nel 2012 e dedicato al Sud (fondi Fas, peraltro tagliati in corsa). Il perché lo ha ben spiegato ai parlamentari Maria Pia Pallavicini, direttore edilizia statale del Mit: «Le risorse sono state rese disponibili solo nel giugno 2013». Ovvero un anno dopo. E neanche tutte: la “cassa”, cioè la disponibilità effettiva, è al 45 per cento.
I punti critici di questa strategia sono tanti. Innanzitutto, i percorsi burocratici. Dal 2002, da quando il filone “dal basso” della legge 23/1996 si è andato prosciugando, l’ottica è diventata “centralistica”, con interventi approvati dal Cipe, e non potrebbe essere altrimenti visto che i soldi arrivano da una costola del piano grandi opere della legge obiettivo. Ma la procedura di spesa è – sempre a detta dei parlamentari – «lunga, tortuosa e discrezionale» e si sta dimostrando «insostenibile rispetto all’urgenza degli interventi».
Prendiamo il primo piano, datato dicembre 2004, vecchio di nove anni. Tra le criticità indicate dal Mit figura la tegola del mutuo: un intero anno si è perso da quando (Finanziaria 2007) è stata imposta agli enti locali l’autorizzazione per accendere i mutui. Il via libera per Comuni e Province a spendere è arrivato quindi a dicembre 2007, a tre anni dall’assegnazione dei contributi.
Altro tempo si perde per «carente o assente progettazione delle opere programmate» (il giudizio è del Mit). A frenare i cantieri nell’ultimo miglio ci pensa, poi, il solito Patto di stabilità interno: le Province per quest’anno avevano programmato di investire nelle scuole 727,8 milioni. Come spiega l’Upi, per effetto del Patto ne
potranno spendere alla fine solo 212 milioni. Un taglio del 71 per cento. L’indagine appena avviata lascia intravedere una via d’uscita: senza attendere le conclusioni si ipotizza di «predisporre una bozza di Piano decennale», insomma qualcosa che vada oltre l’emergenza. Va in questo senso anche l’ultima mossa del Governo: nel decreto del fare (Dl 69/2013) ci sono 450 milioni per l’edilizia scolastica. Confluiranno nel Fondo unico per l’edilizia scolastica, che appunto, dovrebbe almeno riunificare il contenitore. Per spenderli l’intesa firmata nella Conferenza unificata del 1° agosto prevede, di fatto, un ritorno al passato: programmazione congiunta con le Regioni, ascoltando le esigenze degli enti locali. Più il commissariamento per gli enti ritardatari.
Spera di voltare pagina anche il ministro Maria Chiara Carrozza: «Puntiamo a superare un modello di governance – ha ammesso dopo la firma – che negli ultimi anni si è rivelato inefficace per i tempi troppo lunghi, non più sostenibili, per rendere spendibili le risorse stanziate e per aprire i cantieri».
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