Commissario per la spending review Saccomanni punta su Cottarelli del Fmi

Il ministro: “Resto solo se difendiamo il vincolo del 3%”

Repubblica
12 Settembre 2013
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È da molto prima di diventare ministro che Fabrizio Saccomanni proietta all’esterno l’immagine di un uomo con pochi spigoli, dedito semmai a smussare quelli altrui. Per questo le sue parole d’esordio, domenica al Forum Ambrosetti, devono aver preso qualcuno di sorpresa: «Quando Enrico Letta mi ha chiesto di entrare nel governo, gli ho posto una sola condizione: che restasse fermo l’impegno a mantenere il deficit entro il 3% del Pil». Il ministro dell’Economia a Cernobbio ha subito aggiunto che il premier ha fatto proprio quella promessa e l’ha riconfermata più volte. Ma il sottinteso era percettibile appena sotto la superficie: Saccomanni non è disposto a lavorare in un esecutivo che dovesse violare il vincolo di finanza pubblica. Non ci sono indicazioni evidenti che ciò stia per succedere, eppure il rischio di una crisi di governo rende senz’altro più difficile il compito del ministro dell’Economia. Da ormai due mesi per esempio Saccomanni annuncia l’intenzione di nominare «in tempi brevi» un commissario straordinario per la spending review.

Secondo varie fonti con conoscenza diretta del dossier, Saccomanni ha anche in mente da tempo una persona adatta per quell’incarico: Carlo Cottarelli, un passato in Banca d’Italia, oggi direttore del dipartimento per gli affari fiscali e di bilancio del Fondo monetario internazionale. Il solo fatto di pensare a un profilo del genere indica che Saccomanni non intende mettere mano alla spesa pubblica con il cacciavite o le forbicine da unghie. Vuole farlo con una robusta arma da taglio. Sarebbe difficile attrarre Cottarelli da Washington, dov’è all’apice della carriera, senza fornirgli garanzie sull’efficacia del suo mandato.

Del resto è lo stesso Fmi che da anni suggerisce all’Italia di tagliare la spesa con decisione per poi poter ridurre il carico fiscale sul lavoro e sulle imprese di altrettanto. Il ministro ha ripetuto l’impegno a creare il commissario straordinario alla spending review, «permanente» e dotato di staff, sia a Cernobbio che ieri al Centro studi Confindustria. Eppure, per ora, lo ha fatto. Non è chiaro se Saccomanni e Cottarelli abbiano già iniziato a parlarsi; diventa sempre più chiaro però con il passare delle settimane che per il Tesoro si sta rivelando impossibile attirare un professionista di prima fascia internazionale per la spending review in Italia, fino a quando non potrà fornire garanzie sul futuro del governo.

Che sia Cottarellio chiunque altro, Saccomanni per ora non cerca neanche di aprire il negoziato per quell’ufficio perché non è in grado di promettere continuità sulla sua stessa linea. Così settimane d’instabilità politica stanno progressivamente prendendo in ostaggio la gestione della finanza pubblica, proprio nel momento meno indicato. All’uscita dalla recessione, i concorrenti diretti dell’Italia sono già impegnati ad accelerare gli interventi per ridurre la spesa e facilitare le proprie imprese sui mercati esteri. Ieri Pierre Moscovici, il ministro dell’Economia di Parigi, ha annunciato tagli per 12 miliardi (0,6% del Pil francese): malgrado la sua riluttanza sul rigore di bilancio, sul fronte dei tagli di spesa la Francia ha già dato un messaggio più chiaro dell’Italia. La Spagna invece fa forse anche di più perché, secondo il Centro studi Confindustria, dal 2011 ha conquistato ben 12 punti percentuali di competitività sull’Italia: come se l’economia iberica godesse i frutti di una svalutazione di altrettanto sui costi dell’export.

Proprio Confindustria chiede al governo di trovare quattroo cinque miliardi di tagli per finanziare la riduzione dei carichi fiscali sulle busta paga e sulle imprese. Non è troppo presto per farlo: in Italia la spesa pubblica quest’anno raggiungerà il 51,8% del Pil, mentre era al 50,4% nel 2011. Su questo continuo aumento pesano ovviamente il crollo dell’economia e gli aumenti automatici di voci come le pensioni. Ma se solo la spesa dello Stato fosse al 47,5% del Pil come dieci anni fa, quando l’Italia era già nell’euro da tempo, ciò liberebbe oltre sessanta miliardi di euro di possibili sgravi fiscali e contributivi. Oltre dieci volte più di quanto chiedono gli imprenditori.

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