La tagliola sulle ex municipalizzate scatterà dopo due anni di bilancio in perdita. Con l’obbligo di vendita delle quote se quella del Comune è una partecipazione di minoranza. E con l’imperativo di liquidare l’intera società se invece il Comune ne possiede più del 50%. Non solo. Per ripianare le perdite sarà sbarrata la strada del salvataggio dall’alto, finora percorsa troppe volte. A tappare il buco non potrà essere più lo Stato, con relativo trasferimento di denaro fresco. Il compito spetterà allo stesso Comune con l’unico strumento che resta nelle mani dei sindaci: l’aumento delle tasse locali, dalle addizionali Irpef alla service tax che verrà.
Il governo torna ad occuparsi del cosiddetto capitalismo municipale, quella galassia di 3.600 società partecipate dai Comuni che dal perimetro classico dei servizi pubblici locali,come energia, trasporti e rifiuti, si è allargata nel tempo verso la cultura, lo sport, il commercio, le varie e pure le eventuali. Il pacchetto allo studio dei tecnici del ministro per gli Affari Regionali, Graziano Delrio, dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri nelle prossime settimane, sotto forma di decreto legge. Un intervento d’urgenza perché per le società partecipate ci sono due scadenze, ormai vicinissime. Entro il 30 settembre tutti i Comuni al di sotto dei 30 mila abitanti dovrebbero cedere tutte le loro partecipazioni. Mentre entro la fine dell’anno i Comuni che hanno fra i 30 mila e i 50 mila abitanti dovranno fare le loro scelte, conservando le loro partecipazioni al massimo in una sola società. Un obbligo di ritirata deciso nel 2010, più volte prorogato come da antica tradizione italiana e anche corretto dallo Corte costituzionale che ha «salvato» le società controllate dalle Regioni, cancellando la parte che le riguardava.
Le due scadenze potrebbero essere congelate, ma solo a patto di far partire nel frattempo le nuove regole generali. Cominciando dalle misure «punitive» in caso di buco di bilancio. In realtà la logica di questa modifica sta nel principio di responsabilità. Il salvataggio dall’alto delle società in rosso, per mano dello Stato, ha consentito ad alcune municipalizzate di distribuire dividendi anche quando erano in perdita. E soprattutto ha spalmato su tutti i contribuenti italiani il costo dei salvataggi che si sono ripetuti nel tempo. Il buco di Palermo, per fare un esempio, veniva pagato da tutti gli italiani. Con le nuove regole, invece, se il buco è a Bologna saranno gli stessi cittadini di Bologna a pagarlo con le tasse locali più alte. Il che non significa accanirsi sui bolognesi ma mettere sul chi va là il loro sindaco: l’aumento delle tasse locali è garanzia di mancata rielezione. E quindi il sindaco starà ben attento a non creare un buco che gli costerebbe politicamente caro. O almeno questa è l’idea. Resta però da definire cosa si intende esattamente per «buco di bilancio». Gli anni in perdita consecutivi utili per far scattare le sanzioni dovrebbero essere due, ma la discussione è ancora aperta. Ed è possibile che vengano considerati in perdita solo i bilanci con un «rosso» al di sopra di una certa soglia.
Ma non c’è solo questo nel pacchetto allo studio. Prima di tutto la cornice: i Comuni saranno chiamati a «giustificare» le loro partecipazioni. Dovranno cioè fare un elenco delle politiche pubbliche che vogliono perseguire e poi motivare il ricorso ad una società, possibile solo se non ce ne sono già disponibili sul mercato o nel terzo settore. Una norma di programma che però, insieme alle sanzioni in caso di rosso, potrebbe frenare quell’attivismo che ha portato i Comuni a crearsi le loro società per gli scopi più diversi. Ad oggi i componenti dei consigli d’amministrazione hanno raggiunto quota 24 mila, un dato sottolineato anche dalla Corte dei conti che ha definito le partecipate il «vero cancro degli enti locali».
In alcuni settori come l’acqua, i trasporti e i rifiuti saranno incentivate le alleanze fra Comuni e l’ambito territoriale ottimale sarà quello delle attuali province. Il pacchetto si aggancia così proprio al disegno di legge per l’abolizione delle Province presentato dallo stesso Delrio, che ieri ha lanciato il federalismo demaniale, con il trasferimento ai Comuni di 20 mila immobili dello Stato per un valore di 2,5 miliardi di euro. Non è una contraddizione. Perché è vero che le Province non ci saranno più come organi politici, con elezioni, assessori e consiglieri. Ma è anche vero che il territorio della provincia consente di ridurre i costi di quei servizi che non possono seguire la regola dell’ognuno per sé.
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