Duecentonovantacinque miliardi, virgola uno. È la spesa pubblica che il «Rapporto Giarda», aggiornato a marzo scorso, lettura obbligatoria per chi si deve occupare di spending review, individuava come «aggredibile». «Aggredibile», naturalmente, non vuol dire cancellabile, perché Giarda e il suo staff avevano ritagliato nei bilanci della Pubblica amministrazione le spese che sarebbero state rimodulabili, tagliabili con scelte politiche e soprattutto con la riorganizzazione della macchina pubblica. Fatto sta che, nonostante gli sforzi, gran parte di quella spesa è rimasta finora al riparo da «aggressioni», e rappresenta oggi la prima sfida per la legge di stabilità e per il nuovo commissario alla spending review. Più che inventare nuove misure, però, il compito di Letta, Saccomanni e del neocommissario Cottarelli sarà riprendere il filo dei tanti provvedimenti scritti nell’ultimo anno, per decidere quali possono essere portati all’attuazione e quali invece hanno bisogno di ritocchi per ottenere il risultato.
Nonostante anni di discussioni sul metodo, dalle parti dei ministeri la modalità di revisione della spesa è ancora quella dei tagli lineari, o al massimo “semi-lineari” nella loro ultima evoluzione che prevede più coinvolgimento delle singole strutture su quali capitoli di bilancio sfoltire. Un nuovo capitolo di questa storia viene scritto in queste ore, vale circa 415 milioni di euro e serve per rifinanziare Cig in deroga e fondi per l’immigrazione, risaliti nella graduatoria delle “emergenze” dopo la tragedia di Lampedusa.
Nell’amministrazione centrale, va poi condotta al traguardo la vicenda delle «eccedenze di personale», promessa “rivoluzionaria” della spending review che con il passare del tempo e l’infittirsi delle resistenze da parte degli apparati si è trasformata in un tira e molla interminabile.
Il cuore strategico del problema è lì, perché senza ridisegno della macchina pubblica («riduci, riorganizza e restringi», secondo le tre parole d’ordine del Rapporto Giarda) non c’è alleggerimento della spesa che tenga.
Dopo una lunga ricerca, però, ministeri ed enti della Pubblica amministrazione centrale hanno trovato poco meno di 8mila esuberi (cioè lo 0,3% del personale, dunque con un tasso di efficienza presunto che fa impallidire le multinazionali più aggressive), che devono ancora essere gestiti. Il decreto sul pubblico impiego (Dl 101/2013), ora in corso di conversione, allarga le maglie dei prepensionamenti e delle deroghe alla riforma Fornero, rendendo di fatto più facile l’uscita degli «esuberi» ed evitando il rischio di dover attuate misure più drastiche come mobilità e scivoli. I numeri in gioco, però, parlano solo di un antipasto, e resta da decidere come avviare una ristrutturazione vera dell’architettura pubblica.
Lo stesso Documento di economia e finanza aggiornato due settimane fa dal Governo parla chiaro, e spiega che la spesa per il pubblico impiego è l’unica voce destinata a rimanere ferma fino al 2017 anche in termini nominali. Contratti e retribuzioni individuali sono già congelati per tutto il 2014, e il Dl 98/2011 già inserisce nel ventaglio degli strumenti normativi l’indennità di vacanza contrattuale fino al 2017. Il blocco infinito, però, non può rappresentare l’unica cura per un pubblico impiego destinato ovviamente a invecchiare e ad essere investito da tensioni sindacali crescenti, oltre ad esporsi a un rischio di “precarizzazione” ciclico come mostra il nuovo tentativo di stabilizzazione contenuto nel decreto 101.
Per tutte queste ragioni, il Governo sta riprendendo in mano il dossier sugli esuberi nella Pubblica amministrazione locale. Le misure per ridurli sono già scritte nel decreto del luglio 2012 sulla revisione di spesa, e prevedono il blocco totale del turn over negli enti che superano del 20% la media del rapporto dipendenti/popolazione amministrata, e l’applicazione degli stessi provvedimenti previsti nella Pa centrale (prepensionamenti, mobilità e scivolo biennale con stipendio ridotto) quando la distanza dalla media supera il 40%. Finora, però, non si è trovata la media.
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