Prosegue il dibattito avviato dai Consulenti del lavoro sui provvedimenti che, se attuati, possono dare immediato respiro alle imprese facendo ripartire l’economia. Dopo aver ospitato l’intervento di Luigi Santalucia, consulente del lavoro e sindaco di Treia (Mc), ora è il turno ora di Stefano Ansideri, presidente del Consiglio provinciale dell’Ordine dei consulenti del lavoro di Perugia e sindaco di Bastia Umbra (Pg) che sottolinea i danni prodotti dall’applicazione del patto di stabilità.
Il «Patto di stabilità» angustia e tormenta tutti i sindaci d’Italia. Intanto va detto che questa regola, introdotta per limitare l’indebitamento pubblico, è riservata allo Stato italiano ed ad altri pochi Stati, come il nostro in un particolare stato di difficoltà finanziaria, mettendo a nudo un modo di amministrare i soldi pubblici, soprattutto nel passato, che poco ha a che vedere con una corretta gestione improntata al soddisfacimento degli interessi collettivi. Per quanto mi riguarda, forse a causa della ormai consolidata abitudine, di professionale provenienza, al rispetto delle normative vigenti, ho sempre preteso di approvare i bilanci di previsione entro l’anno precedente quello di riferimento (nonostante la possibilità di farlo in tempi molto più lunghi), dando così anche un segnale di serietà per quanto concerne le scelte alla base del documento programmatico.
Bastia Umbra, nel 2012, è risultato essere fra i 143 comuni virtuosi italiani (unico in Umbria) e ha ottenuto, per questo, un «allentamento» dal Patto di stabilità, che ha consentito di effettuare solo in parte quegli investimenti per interventi infrastrutturali, che la popolazione aspetta da tempo.
Da quest’anno, le normative succedutesi hanno riportato tutti i comuni sullo stesso piano e quindi il trattamento in tema di tagli ai trasferimenti e possibilità di investimenti ha seguito la logica della orizzontalità. E qui sta il problema in quanto, nonostante le potenzialità finanziarie del mio comune, come di altri con lo stesso grado di virtuosità, non è possibile spendere denari per investimenti, se non per una esigua quota, risultato di una cervellotica formula, molto al di sotto delle potenzialità di finanziamento.
Sin qui, vista la volontà di procedere ad una costante quanto significativa riduzione della spesa pubblica, nulla quaestio, ma rimane sconcertante il fatto che comuni ben amministrati debbano riservare ai propri cittadini trattamenti identici, in termini di infrastrutture e servizi, a quelli di comuni in pre o acclamato stato di dissesto finanziario.
Avendo poi a mente teorie economiche di keynesiana ispirazione, le quali indicano negli investimenti pubblici la strada più breve per muovere e far ripartire l’economia in assenza quasi completa di investimenti privati, rimane di non facile comprensione una politica che da una parte finanzia con notevoli cifre gli ammortizzatori sociali (in parte indispensabili, ma improduttivi) e dall’altra non consente agli enti pubblici virtuosi di immettere capitali nel circuito economico attraverso investimenti in opere, che andrebbero a creare occasioni di lavoro per le aziende e, conseguentemente, per i loro lavoratori, ricreando condizioni di espansione economica.
Rimane la speranza che il ripetuto invito ad allentare le condizioni, rivolto al governo attraverso appelli da parte dall’Anci e di molti amministratori pubblici, venga accolto; darebbe la possibilità ai comuni virtuosi di promuovere benessere per l’intera collettività.
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