Superare il bicameralismo paritario e riformare il Titolo V è indispensabile per recuperare competitività. La recente presentazione di un progetto governativo è quindi da salutare con favore. Tuttavia, diversi suoi contenuti non convincono. Modificare la Costituzione è un’operazione delicata: il più piccolo errore può diventare come la palla di neve che causa la valanga. Lo ha dimostrato la riforma costituzionale del 2001. Nel testo presentato le palle di neve sono diverse e il rischio di frane è alto.
Nella nuova Assemblea delle autonomie, composta da sei membri (tre regionali e tre comunali) per ogni regione, non c’è alcun rapporto tra popolazione e numero dei senatori: la Valle d’Aosta, con poco più di centomila abitanti, avrà gli stessi rappresentanti della Lombardia, che ne conta quasi dieci milioni. Poco senso hanno poi i ventuno esponenti della società civile, nominati dal Presidente della Repubblica, in un contesto di questioni altamente tecniche connesse al sistema autonomistico. Riguardo alle funzioni, infine, l’impianto appare quasi schizofrenico: l’Assemblea delle autonomie non dà la fiducia, può solo chiedere il riesame delle leggi ordinarie, ma partecipa a pieno titolo alla revisione della Costituzione.
Non ci sono quindi leggi bicamerali (che sarebbero invece utili nelle materie connesse agli ordinamenti di regioni e comuni), ritenute rischiose per la mancanza, nella camera territoriale, del rapporto fiduciario col Governo. Ma nel contempo l’Assemblea delle autonomie, sulla materia costituzionale, la più importante e politica che esista, ha lo stesso potere della Camera dei deputati.
Anche la revisione del Titolo V non è in grado di razionalizzare compiutamente il sistema. Vengono ricentralizzate diverse materie e si elimina la competenza concorrente, assegnando alle regioni la competenza residuale in tutte le altre materie. In questo modo giustamente si riportano allo Stato materie in cui le Regioni hanno poco legiferato e si deflaziona il contenzioso.
Tuttavia, non viene prevista una disposizione utile a evitare che, a seguito della eliminazione della competenza concorrente, la potestà legislativa regionale possa liberamente espandersi in tutte le materie innominate. Altra schizofrenia, perché a fronte della centralizzazione di numerose materie, in quelle che riguardano la «tutela della salute», le «casse di risparmio», l’«alimentazione» e l’«ordinamento sportivo», ad ogni regione viene assegnata una competenza esclusiva, senza più il limite dei principi fondamentali statali.
Lo stesso vale per la ex materia concorrente, «rapporti internazionali delle Regioni»: vuol dire che il Molise potrà stipulare con altre nazioni accordi in piena autonomia?
Sebbene il Governo possa riprendersi queste materie con la clausola di supremazia, fino all’approvazione della relativa legge statale una regione potrebbe devastare, ad esempio, la disciplina delle casse di risparmio o dell’ordinamento sportivo. Lo Stato ogni volta sarebbe quindi costretto a inseguire l’espansione della legislazione regionale.
Last but not least, il progetto presentato non razionalizza per nulla (bypassando le precise indicazioni della relazione dei “Saggi”) la spesa decentrata, che oggi, escluse pensioni e interessi, copre il 60% di quella complessiva. In particolare, l’80% della spesa regionale attiene alla sanità, ma la riforma non costituzionalizza i costi standard, mantenendo sempre precaria e revocabile la loro applicazione. Eppure attiene prettamente al patto costituzionale fissare in modo definitivo, superando le ricorrenti resistenze, un criterio di responsabilità e accountability. Neppure si prevede il divieto, in caso di gravi dissesti, di nominare commissario della sanità lo stesso presidente della Regione.
Infine, riguardo ai Comuni s’ignorano i fabbisogni standard (che coprono l’80% della spesa comunale) e nessun freno viene stabilito riguardo alle migliaia di società partecipate che si sono sviluppate in modo infestante, essendo spesso solo colossali e costosissimi poltronifici, nei sistemi comunali. Neppure nulla si dice, salvo sopprimere le Province, su tutta l’altra miriade di enti intermedi inutili (Ato, Bim, ecc.) che potrebbero essere tranquillamente soppressi, risparmiando e riducendo burocrazia. Eppure proprio a livello costituzionale, dato il fallimento dei vari tentativi fatti con leggi ordinarie, che si colloca il rimedio a queste degenerazioni.
Se la riforma del Titolo V e del bicameralismo deve quindi ristabilire un efficace ruolo di coordinamento dello Stato, superando una volta per tutte l’attuale policentrismo anarchico, il risultato, nonostante alcuni aspetti positivi del progetto, non sembra ancora raggiunto e il rischio di rimanere impigliati nel pasticcio di un nuovo federalismo all’italiana è alto. Sul testo, quindi, c’è ancora molto da lavorare per affermare le ragioni costituzionali della riforma.
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