Servizi ai cittadini ridotti per effetto del dl 66/2014. Si era detto che nel decreto «spending review» i tagli alla spesa delle amministrazioni avrebbero dovuto riguardare i cosiddetti «servizi intermedi». Si tratta, cioè, delle spese che la pubblica amministrazione sostiene per il proprio funzionamento: per esemplificare, carta, cancelleria, pulizie, noleggi di auto o di computer, proprie manutenzioni, calore, utenze telefoniche. Queste spese si distinguono da quelle «finali», destinate ai cittadini, utenti «finali» appunto delle attività svolte.
Il «taglio» previsto dal dl 66/2014 per acquisizioni di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni ammonta a 2,1 miliardi (700 a carico dello Stato, 700 delle regioni, 340 delle province e 360 dei comuni), ma a ben vedere non riguarda solo i servizi intermedi.
Per individuare i beni e servizi oggetto dell’intervento, il Governo si è basato sui codici del Siope (Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici): si tratta di un sistema di rilevazione telematica degli incassi e dei pagamenti effettuati dai tesorieri delle p.a., gestito dalla Ragioneria generale dello stato, che rileva come i soldi pubblici sono materialmente spesi. Il decreto autorizza le amministrazioni a ridurre del 5% gli importi dei contratti in essere per beni e servizi, indicando effettivamente alcuni codici Siope riferiti a servizi intermedi: ad esempio materiale informatico, acquisto di beni per spese di rappresentanza, materiali e strumenti per manutenzione. Tuttavia, nell’ambito delle spese da tagliare si riscontrano anche i codici Siope riferiti a contratti di servizio per trasporto, contratti di servizio per smaltimento rifiuti, rette di ricovero in strutture per anziani/minori/handicap ed altri servizi connessi, mense scolastiche, servizi scolastici.
Che il trasporto pubblico o le mense o il pagamento di rette per disabili ricoverati siano spese per «servizi intermedi», cioè relative a fabbisogni dell’ente e non della comunità amministrata è facilmente intuibile per chiunque sia un’aberrazione. Si tratta di servizi e beni con ogni evidenza rivolti esclusivamente e direttamente a beneficio dei cittadini.
Dunque, il rischio, come sempre, è che la manovra, pur qualificata come revisione della «spesa improduttiva»,finisca per ridurre le prestazioni che la pubblica amministrazione deve assicurare alla comunità amministrata.
Cosa ulteriormente rimarchevole è, poi, che a questa rilevante riduzione dei servizi finali e non intermedi, non corrisponda a ben vedere una riduzione delle imposte, tale da liberare imprese e lavoratori da un simmetrico gravame fiscale. Si prenda il caso delle province: sono chiamate a tagliare 340 milioni dalle spese. In realtà, tuttavia, alla riduzione della spesa imposta dalla norma non corrisponderà una simmetrica riduzione delle entrate, tale da incidere positivamente sulla pressione fiscale. Infatti, semplicemente la norma impone alle province di versare al bilancio dello Stato la somma di 340 milioni. Laddove qualche provincia non provveda, sarà lo Stato a trattenere la corrispondente quota parte del gettito dell’imposta provinciale sulle trascrizioni per l’acquisto di automobili (Ipt). Analogamente si procederebbe nei confronti dei comuni, agendo sulle entrate derivanti da Imu.
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