Il governo scopre le carte e mette sul piatto altri dieci miliardi per la crescita dell’economia.
La legge di bilancio del 2015 sale nelle sue dimensioni, da poco più di 20 a 30 miliardi di euro, con 18 miliardi di tasse in meno e 16 miliardi di tagli alla spesa, ma è ancora presto per capire se la scelta di una manovra così incisiva, tutta puntata sul rilancio dell’economia e in piena linea con quelle che sono le raccomandazioni rivolte da anni all’Italia, come quella annunciata ieri dal premier Matteo Renzi, sarà sufficiente ad evitare al governo le reprimende europee e dei mercati per non aver fatto abbastanza sulla riduzione del deficit pubblico.
Le prossime ore saranno decisive per capire quale sarà la configurazione definitiva della manovra. E vedere se alla fine, per ottenere il via libera europeo, «non scontato» come ripeteva ieri anche Bankitalia in Parlamento, non ci sarà bisogno di piegarsi a una correzione del deficit strutturale superiore a quella programmata, pari appena ad un miliardo e mezzo di euro. Nei trenta complessivi che dovrebbe muovere la legge di Stabilità non sarebbe un problema eccessivo recuperarne altri due per raggiungere un compromesso, ma per Padoan e Renzi, oggi come oggi, sembra quasi più una questione di principio. L’Italia fa le riforme, riduce le tasse sul lavoro, taglia la spesa pubblica, ha ripetuto Padoan anche in Lussemburgo. E al commissario finlandese Jirky Katainen, considerato uno dei «falchi», il ministro ha consegnato un nuovo rapporto aggiornato sul cronoprogramma e i contenuti delle riforme avviate. È una sorta di pressing. Non una trattativa. Lo nega Katainen, lo nega Padoan. «Non è un negoziato. Tutto rientra nel normale dialogo, è un processo assolutamente normale – spiega il ministro in una pausa dei lavori dell’Eurogruppo -. Bruxelles riceverà subito dopo il Consiglio dei ministri i numeri della legge di Stabilità, e il dialogo si concluderà dopo che la Commissione avrà esaminato non solo i numeri, ma anche la logica nella quale questo programma si inserisce». E il compito del ministro dell’Economia, se Renzi e Palazzo Chigi stabiliscono la cifra politica della manovra, in queste ore è proprio quello di spiegarne la logica ai partner europei.
Un piccolo successo su questo fronte, ieri, Padoan e il governo l’hanno ottenuto. Il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jerome Dijsselbloem, altro esponente della linea del rigore, ha sottolineato pubblicamente come la situazione della Francia, con il deficit oltre il 3% da anni e decisa a posticipare ulteriormente il rientro nei parametri, sia ben diversa da quella dell’Italia, che «crea minori preoccupazioni».
Ha tolto Padoan, che è presidente di turno del Consiglio Ecofin, dall’imbarazzo di doverlo fare, prima o poi, ed è un distinguo importante, oltre che autorevole. Ieri il ministro francese ricordava che il suo governo non farà altri tagli di bilancio oltre quelli previsti, mentre da Roma arrivavano le notizie di una spending review che lievitava verso i 16 miliardi.
Neanche al governo italiano converrebbe una guerra tra Parigi e Bruxelles, ma intanto è bene cominciare a tirarsi fuori. E insistere sulla necessità di dare una svolta alla politica economica europea, di spingere sugli investimenti, e su un risanamento più favorevole alla crescita, non tanto a parole, ma con i fatti. Ad esempio tenendo conto dell’effetto delle riforme strutturali sulla crescita, e anche nella valutazione delle condizioni di bilancio dei Paesi membri. Per il momento, nella manovra delineata da Renzi, ci sono tutte le risposte alle sollecitazioni politiche che arrivano da Bruxelles da molti anni: il taglio delle tasse sul lavoro, la riduzione del cuneo fiscale per le imprese, la riduzione e la riqualificazione della spesa pubblica. Mercoledì sera Renzi e Padoan tireranno la riga anche sotto la colonna dei numeri. E se davvero bastassero tre miliardi, come pare, per fare quel passo sul deficit che la Ue considera il minimo indispensabile, non sarebbe certo un problema.
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