Il legislatore del giugno scorso ha “illuso” gli enti locali prospettando loro un’apertura significativa in tema di assunzioni. Il decreto sulla Pubblica amministrazione (Dl 90/2014) ha infatti portato le percentuali di sostituzione del personale cessato, allora fissate nel 40% della relativa spesa, al 60% per il 2015, all’80% per il biennio 2016-207 per arrivare al turn over pieno nel 2018. E per gli enti virtuosi il 100% era garantito già dal 2015. Ma questa illusione è durata sei mesi.
Il Governo ha infatti presto ingranato la retromarcia e, nella legge di stabilità 2015, le esigenze dei Comuni hanno dovuto cedere il passo all’«interesse superiore» rappresentato dal riassorbimento dei dipendenti delle Province e delle Città metropolitane dichiarati in soprannumero a seguito dei tagli alle rispettive dotazioni organiche. L’obiettivo è chiaro e si identifica nei risparmi di spesa (un miliardo di euro nel 2015, due miliardi nel 2016 e tre miliardi a partire dal 2017). E tale obiettivo deve essere perseguito, a nulla rilevando se questo comporta notevoli incertezze interpretative in ordine all’applicazione della nuova normativa.
Dubbi che portano, inevitabilmente, a lasciare il peso delle decisioni, e la relativa responsabilità, in capo ai dirigenti e ai responsabili di servizio, che sono chiamati ad applicare concretamente le disposizioni della legge di stabilità. Parimenti indifferente rispetto al traguardo da raggiungere può essere considerata la creazione di nuovo precariato, al fine di eludere i vincoli sulla ricollocazione del personale in esubero. Nuovi spazi si sono infatti aperti con l’abrogazione del vincolo del 50% della spesa del 2009 per il lavoro flessibile, con riguardo agli enti in regola con la spesa di personale e con il Patto di stabilità. Rimane, comunque, il tetto di spesa pari all’importo sostenuto nel 2009 per il medesimo titolo come, dopo parecchie incertezze sollevate dalla norma, ha chiarito la sezione Autonomie della Corte dei Conti nella delibera 2/2015.
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