Sul proscenio, il fantasma della spending review, l’incognita delle tasse legate alle “clausole di salvaguardia” e la partita con Bruxelles sulla flessibilità; sullo sfondo, un processo di ri-centralizzazione delle funzioni e delle risorse nelle mani dello Stato. Stretta tra le incombenze del Def e una lacunosa attuazione – a quasi 15 anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione – del principio di sussidiarietà, la spesa pubblica in Italia (nel 2014 arrivata a quota 825 miliardi, +7,8% sul 2013) si ritrova a un giro di boa delicato: «un ulteriore aumento delle uscite e della pressione fiscale avrebbe oggi implicazioni molto negative». Fortuna che il contesto internazionale di tassi e spread sia al momento favorevole, ma questa finestra potrebbe chiudersi all’improvviso. Dunque, una domanda capitale potrebbe essere questa: per ridurre la spesa (obiettivo indifferibile) è opportuno ri-centralizzare, riducendo le competenze e le risorse economiche assegnate a Regioni ed enti locali, oppure occorre procedere verso un federalismo reale e differenziato, concedendo autonomia alle amministrazioni che si dimostrano virtuose?
Un tentativo di risposta – non ideologico, né aprioristicamente favorevole al decentramento – arriva dal Rapporto 2014-2015 “Sussidiarietà e… spesa pubblica” a cura della Fondazione per la sussidiarietà in collaborazione con l’Università degli studi di Bergamo, che verrà presentato dopodomani nella Sala Aldo Moro di Palazzo Montecitorio a Roma. Il Rapporto, che scandaglia ai raggi X il bilancio pubblico italiano dal 1995 al 2013, segnala luci e ombre. Partiamo dai dati positivi. «L’aspetto più significativo – scrive nell’introduzione Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà – è il percorso virtuoso intrapreso negli ultimi decenni, misurabile con la generazione di avanzo primario: la differenza tra entrate e uscite sarebbe positiva in assenza della spesa per interessi sul debito, a differenza di quanto accade per la grandissima parte dei partner europei». Secondo aspetto virtuoso: dal 2010 – ricorda il curatore del rapporto, Gianmaria Martini, ordinario di Economia politica all’Università di Bergamo – quasi tutte le voci di spesa sono in diminuzione: la spesa per i dipendenti pubblici scende da 173 a 165 miliardi (dato 2013), la spesa per produrre beni collettivi cala da 328 a 315 miliardi e quella per interessi torna a diminuire dopo la crisi dell’estate 2011».
Sul versante opposto, però, resta un macigno: è il modello di spesa pubblica, eccessivamente centralizzato, soprattutto fino al 2001. A evidenziarlo è la dinamica stessa della spesa: negli anni Settanta sale del 1000%, negli anni Ottanta del 323%, negli anni Novanta del 61%, tra il 2000 e il 2009 del 27%, un trend praticamente a-ciclico, «un’anomalia della politica e dell’amministrazione italiana rispetto ad altri Paesi», sottolinea Vittadini. Così, a fronte di poste di bilancio necessariamente di competenza del governo centrale (per esempio, la difesa, la giustizia…) e di trasferimenti alle amministrazioni centrali (dalle agenzie fiscali a Tar e Consiglio di Stato) nel bilancio pubblico italiano – frammentato in una miriade di settori di intervento – sono presenti anche altre voci (i “trasferimenti”) che potrebbero seguire un percorso diverso: un modello di spesa integrato governo centrale-spesa sussidiaria, in cui a decidere sono in parte direttamente chiamati in causa i cittadini con le proprie scelte, un po’ come avviene con l’8 per mille e con il 5 per mille.
Il Rapporto intende così dare corpo e spessore a espressioni quali «decentramento, libertà di scelta, corpi intermedi, welfare mix», che altrimenti – sottolinea Vittadini -«rimarrebbero enunciazioni con un’incidenza molto limitata se non giungessero a modificare la struttura della spesa pubblica, strumento fondamentale della vita civile ed economica di un Paese».
Sul legame tra sussidiarietà verticale (trasferimento di competenze dallo Stato ai livelli territoriali) e spesa pubblica il Rapporto offre un doppio contributo. Da una parte, calcola quanto è migliorato nel periodo 1995-2013 il “grado di sussidiarietà verticale” (spesa pubblica degli enti locali e territoriali fratto spesa pubblica totale): in Italia è pari al 30% (era al 25% nel ’95), in Germania è al 46%, in Spagna al 48%, in Francia al 21% e nella Ue in media al 33 per cento. Il nostro Paese, dopo l’adozione del principio di sussidiarietà nella Costituzione, ha fatto buoni progressi, ma i benchmark europei restano lontani. Basta un esempio: la spesa sussidiaria verticale pro capite in Italia è pari a 3.800 euro contro i 6.800 della Germania, i 4.800 della Spagna e una media Ue di 4.200 euro.
Ma c’è di più. In base a un modello econometrico sulla relazione tra incidenza della sussidiarietà verticale sulla spesa pubblica e la crescita economica, un aumento del 10% di spesa sussidiaria verticale si traduce in un +0,64% di crescita annuale del reddito reale pro capite. «In termini monetari – spiega Martini – si parla di un aumento reale di reddito per una famiglia di quattro persone pari a circa 570 euro annui, cioè circa 50 euro mensili, senza impegni aggiuntivi per il debito pubblico».
Nel progettare un cambiamento della spesa il Rapporto si concentra poi sulla sussidiarietà orizzontale (articolo 118, comma 4, della Costituzione, in base al quale lo Stato nelle sue articolazioni favorisce «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale»), tentando di quantificare la porzione di spesa pubblica riconducibile all’adozione della sussidiarietà orizzontale come forma di rapporto fra Stato e cittadini: si tratta dei trasferimenti a sostegno dell’offerta misurati dalle quote di gettito cui lo Stato rinuncia e che i cittadini assegnano tramite 5 per mille e 8 per mille più le misure finanziarie a sostegno della domanda di beni e servizi coerenti con la libertà di scelta (detrazioni di imposta e oneri deducibili che lo Stato rimborsa a fronte di spese direttamente sostenute dei cittadini). Una porzione ridotta a briciole, soprattutto se paragonata alla quantità di sussidiarietà orizzontale a cui può far ricorso un cittadino statunitense. Il paragone è impietoso: in Italia la spesa pubblica sussidiaria orizzontale in senso stretto (tax credit e deducibilità) oscilla tra i 2,6 e i 4,3 euro pro capite, negli Usa spazia dai 48 ai 168 euro pro capite.
Più sussidiarietà, più decentramento, più autonomia sono dunque le ricette per curare i mali della spesa pubblica italiana? Visto che il federalismo ha prodotto risultati virtuosi, ma si è macchiato anche di sprechi, inefficienze e scandali, il Rapporto suggerisce «possibili direzioni di miglioramento»: un decentramento differenziato e arricchito di sperimentazioni (Massimo Bordignon), la necessità di bilanciare uniformità di prestazioni e autonomia dei livelli territoriali di governo (Piero Giarda), la costruzione o il rafforzamento di un sistema di valutazione ex post da affidare ad agenzie indipendenti.
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