Il conferimento di incarichi dirigenziali senza una preventiva valutazione, e soprattutto senza previo avviso, è oramai a rischio di apprezzamento anche da parte del giudice penale, potendo integrare una violazione di legge e il conseguente vantaggio ingiusto. Questo è quanto sembrerebbe emergere da alcune valutazioni, ancora in fase iniziale, da parte di alcuni giudici penali.
Il procedimento di affidamento degli incarichi è disciplinato dall’articolo 19, comma 1-bis, del Dlgs 165/2001, in base al quale «l’amministrazione rende conoscibili, anche mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, il numero e la tipologia dei posti di funzione che si rendono disponibili nella dotazione organica ed i criteri di scelta: acquisisce le disponibilità dei dirigenti interessati e le valuta». Norma di principio che si applica anche alle amministrazioni regionali e locali, solo dopo l’estensione a cura della Corte Costituzionale con la decisione 324/2010, mentre in precedenza valeva un diverso orientamento: in tal senso la decisione della Corte dei Conti, sezione di controllo della Lombardia, con il parere 308/2010.
Si tratta dunque di un procedimento caratterizzato dall’evidenza pubblica e dalla selettività: l’obbligo di valutare la disponibilità degli interessati impone alle amministrazioni pubbliche di esternare le scelte effettuate, vincolate a predeterminati criteri di scelta. Ogni disposizione legislativa regionale o regolamentare locale deve essere disattesa per un’evidente prevalenza della fonte normativa primaria. Lo stesso orientamento, peraltro, è costante nelle ispezioni del Mef: l’assenza della fase valutativa e dell’adeguata pubblicità rende gli incarichi, anche interni, illegittimi e quindi potenzialmente punibili anche sotto l’aspetto penale. In tema la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali quelle norme che consentivano l’attribuzione di incarichi non coerenti con la regola del concorso o della selezione conformemente a quanto richiesto dagli articoli 3, 51 e 97 della Costituzione (sentenze n. 217 del 2012, n. 150 e n. 149 del 2010, n. 293 del 2009 e n. 453 del 1990). Così come sono oramai privi di copertura costituzionale e legislativa gli incarichi dirigenziali di natura strettamente fiduciaria, se non nei casi di figure contigue all’organo politico che li nomina.
In giurisprudenza è costante la considerazione che la pubblicità degli incarichi da conferire (con indicazione del numero e del tipo) e dei criteri di scelta, l’acquisizione delle disponibilità degli interessati e la loro valutazione previste dalla norma siano elemento di legittimità (Corte dei Conti, sezione centrale di controllo, delibera n.14 del 25 giugno 2010). Questi adempimenti implicano una serie di obblighi strumentali alle attività valutative vere e proprie. In particolare, comportano l’individuazione dei requisiti specifici di professionalità in funzione degli obiettivi da perseguire e della complessità della struttura interessata, nonché la puntuale determinazione dei criteri di valutazione delle competenze e delle esperienze professionali dei dirigenti che manifesteranno la loro disponibilità. Analogamente, la Cassazione già dal 2012 ha affermato che «in caso di affidamento di un incarico dirigenziale, anche se tale atto ha natura di determinazione negoziale assunta con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, la Pa è obbligata al rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede (articoli 1175 e 1375 del Codice civile), applicabili alla stregua dei princìpi di imparzialità e di buon andamento di cui all’articolo 97 della Costituzione. Le norme contenute nel Dlgs 165/2001, all’articolo 19, comma 1, obbligano infatti la Pa datrice di lavoro a valutazioni anche comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e a rendere noti i motivi della scelta».
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