I bilanci delle Province hanno l’acqua alla gola, perché la stretta finanziaria da un miliardo imposta dall’ultima legge di stabilità è arrivata molto prima dell’alleggerimento di funzioni e personale che avrebbe dovuto renderla sostenibile. In questo quadro, i bilanci sono in «progressivo deterioramento», ed è urgente una «manovra di riallineamento» fra risorse e competenze per evitare effetti a catena che minerebbero gli esiti stessi della riforma.
La relazione sul «riordino delle Province» diffusa ieri dalla Corte dei conti (delibera 17/2015 della sezione delle Autonomie) è di quelle che lasciano il segno, anche perché non risparmia nessuna delle responsabilità diffuse fra Governo, Parlamento e Regioni su una riforma che per mesi ha occupato il palco centrale nel teatro del dibattito politico. La Cgil legge nella relazione la conferma del rischio evocato sabato scorso di un possibile blocco del pagamento degli stipendi, già a partire da giugno negli enti più in difficoltà (si veda Il Sole 24 Ore del 10 maggio), mentre il Governo torna a gettare acqua sul fuoco: nel corso dell’incontro di ieri con gli amministratori locali, il sottosegretario agli Affari regionali Gianclaudio Bressa ha ribadito l’impegno del Governo a coprire i costi del personale che avrebbe già dovuto transitare alle altre amministrazioni (impegno lanciato dallo stesso sottosegretario sul Sole 24 Ore del 1° aprile scorso). Le Province, dal canto loro, terranno domani la loro assemblea nazionale in cui rilanceranno l’allarme sui loro conti.
Resta il fatto, però, che la “scommessa” lanciata dalla legge di stabilità è per ora lontana dal successo. Proprio per accelerare i processi di mobilità, l’ultima manovra ha ridotto di un miliardo i fondi delle Province sulla base del fatto che il «costo efficiente» delle funzioni residue degli enti di area vasta sarebbe stato del tutto finanziabile con i 2,4 miliardi rimasti nelle entrate degli enti. Fino a oggi, però, né un dipendente né una funzione ha abbandonato le Province, e secondo i magistrati contabili questa immobilità «è destinata a protrarsi».
A bloccare la riorganizzazione della geografia istituzionale, che dovrebbe spostare competenze e personale alle altre Pa, sono prima di tutto le Regioni. Finora solo quattro consigli regionali (Liguria, Toscana, Umbria e Marche) hanno approvato le leggi attuative della riforma Delrio, mentre negli altri casi i progetti sono al massimo passati in Giunta. Le leggi regionali, approvate o in cantiere, si sono però limitate ad avviare una catena dei rinvii (descritta sul Sole 24 Ore del 23 febbraio) che rimanda a provvedimenti successivi la ricollocazione di servizi, soldi e dipendenti. Scorrendo le leggi regionali, la Corte dei conti ha trovato «incertezze nell’individuazione della nuova titolarità delle funzioni», «mancata considerazione dello stretto legame previsto dalla riforma tra funzioni, risorse, patrimonio e personale» e la «mancata attuazione del principio di sussidiarietà», con la conseguenza di un «diffuso accentramento in capo alle Regioni delle funzioni amministrative». In pratica, dalla (lenta) applicazione di queste riforme scaturirebbe un neo-centralismo regionale con cui i Governatori accentrano potere ma tengono lontano l’onere finanziario legato al personale.
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