Da decenni si prova, nel susseguirsi dei governi e delle diverse stagioni politiche, a ridefinire il raggio di azione delle Regioni, con il risultato che al momento, tra scandali e malversazioni, il distacco con i cittadini-elettori va ampliandosi, e stenta ad affermarsi la necessaria correlazione tra il potere impositivo accordato a questi colossi dell’amministrazione pubblica e la loro effettiva capacità di spesa.
Il paradosso dell’Italia – come ha osservato l’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli – è che vi sono moltissime regole, «che dipendono dal fatto che nessuno si fida degli altri» e questo «genera sia regole tanto minuziose quanto inapplicabili, sia complessità delle strutture organizzative».
La burocrazia regionale non è da meno rispetto alla consorella. E così ci ritroviamo con 34mila centrali di acquisto della pubblica amministrazione.
Il problema è che, se si osserva la dinamica di spesa delle Regioni, i divari appaiono enormi.
Un vero, incisivo e strutturale percorso di revisione della spesa pubblica in Italia (un moloch che assorbe 827 miliardi di risorse, pari al 50,5% del Pil) non può che passare dunque attraverso un’attenta ridefinizione dei diversi centri di spesa, e la contestuale riallocazione e razionalizzazione sia delle spese di competenza delle amministrazioni centrali che di quelle in capo alle autonomie territoriali. I risparmi (non certo frutto dei vituperati tagli lineari) ne diverrebbero naturale corollario.
La spesa pubblica complessiva era pari a circa il 23,6% del Pil nel 1951. Nel 1993, l’anno successivo alla grave crisi finanziaria che causò la momentanea uscita dell’Italia dal sistema di cambi allora in vigore, e rese necessaria la maxi-manovra correttiva di 93mila miliardi delle vecchie lire, raggiunse il 56,6%, per scendere fino al 47,3% nel 2000 e poi risalire ancora fino al 51,2% nel 2010, più o meno lo stesso livello di oggi. Certo, magna pars di questa enorme massa di risorse pubbliche è rappresentata dalla spesa per interessi sul debito pubblico. Nel 1951 spendevamo appena l’1,2% del Pil. Nel 1993 si è toccato il picco del 12,7 per cento. Ora, grazie al calo dei tassi e alla discesa dello spread siamo al 4,2% del Pil. Se si guarda alla spesa corrente primaria al netto degli interessi, siamo al 42,8% (poco meno di 700 miliardi) ed è proprio in questo enorme segmento che la spending review dovrebbe dispiegare i suoi effetti.
Stando alle analisi condotte da un attento conoscitore della spesa pubblica come Piero Giarda, ammonta ad almeno 80-100 miliardi la spesa «potenzialmente aggredibile». Risparmi da dirottare al taglio delle tasse al “recupero” dell’aggregato di spesa che maggiormente è stato sacrificato sull’altare del rigore: gli stanziamenti in conto capitale e per investimenti pubblici, che negli ultimi vent’anni del secolo scorso assorbivano circa il 5% del Pil, per contrarsi negli anni 2000-2010 attorno al 4% medio annuo, e scendere poi ulteriormente al 3,6% del 2015.
Le Regioni amministrano la sanità con il peso dei suoi 110 miliardi l’anno. Nel totale le amministrazioni locali gestivano nel 1951 il 18% della spesa complessiva, nel 1980 il 26,8% e nel 2008 il 31,6% del totale. Ma la questione non è tanto “quanto” si spende ma “come” si spende. Il costo medio regionalizzato della spesa per servizi pubblici è di 4.500 euro per abitante, e il picco è nelle Regioni meridionali con una spesa pro capite spesso superiore ai 5.000 euro. Stando a un recente studio di Confcommercio, il rapporto tra livelli di servizio in Lombardia e Calabria è di quasi 3 a 1.
In un contesto pur altamente sperequato al suo interno, spetta proprio alla spending review ritagliare spazi consistenti per provare a ridurre una pressione fiscale che le statistiche ufficiali collocano al 43,5% del Pil. Un obiettivo effettivamente perseguibile? Come sempre è una questione di priorità. Il Documento di economia e finanza cifra – è vero – in almeno 10 miliardi la dote complessiva della spending review nel 2016, ma si tratta di risorse che – se effettivamente realizzate – sono già prenotate per disinnescare la mina della clausola di salvaguardia che altrimenti scatterà dal prossimo anno sotto forma di incrementi dell’Iva e delle accise. Obiettivo pienamente condivisibile. Il problema è che restano ben pochi margini per ridurre le tasse. Si può provare ad innalzare l’asticella dei tagli, ma con molti punti interrogativi poiché – come non manca di osservare lo stesso Cottarelli – intervenire sulla spesa pubblica è operazione prima di tutto (se non esclusivamente) politica, e dunque ha molto a che fare con la gestione del consenso e dunque con il responso delle urne, sempre dietro l’angolo.
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