Una campagna elettorale giocata fra le accuse incrociate sugli «impresentabili» in Campania e Puglia, i cambi di casacca nelle Marche, le spaccature a sinistra in Liguria e a destra in Veneto non ha certo aiutato il dibattito a concentrarsi sul cuore vero della questione regionale italiana, che si può sintetizzare in poche cifre: gli oltre 150 miliardi di euro di spesa corrente all’anno, che diventano 190 se si tiene conto anche di uscite in conto capitale e costo di servizio al debito: si tratta, per capirsi, di 3.124 euro per ogni abitante, neonati compresi.
Queste cifre, nonostante le manovre e i tentativi di spending review che si sono susseguiti negli ultimi anni, non accennano a scendere, e viaggiando sopra il 12% della ricchezza prodotta ogni anno sono uno dei fattori cruciali del problema fiscale italiano.
Quando si parla di spesa locale, accanto ai dati aggregati è fondamentale guardare alle differenze fra i territori, e il grafico qui a fianco propone il censimento completo delle uscite effettive (al netto cioè delle contabilità speciali e delle partite di giro) previste per quest’anno dai preventivi approvati da ogni Regione. Il confronto è più immediato nei territori a Statuto ordinario, dove le competenze sono le stesse in tutti i casi e la variabile da tenere in considerazione è quello dimensionale. Non è un caso che la più piccola fra le Regioni ordinarie italiane, il Molise, sia in vetta alla graduatoria del «costo» pro capite con 4.622 euro a cittadino, e che la più grande, cioè la Lombardia, sia ultima con un conto che si ferma a quota 2.329 euro pro capite: una differenza dalla metà al doppio, che offre qualche argomento importante a chi propone di rivedere i confini regionali riducendo in modo più o meno drastico il numero delle Regioni. Sempre che, naturalmente, una volta posata la polvere dei risultati elettorali e dei loro contraccolpi sui rapporti fra i partiti si torni a discutere di cifre nel merito.
La regola delle dimensioni, che vede il costo pro capite scendere all’aumentare degli abitanti, è però tutt’altro che ferrea, come mostra il caso del Lazio (5,8 milioni di abitanti) che con 3.796 euro a testa si colloca poco più in alto delle più piccole Umbria e Liguria, oltre a superare di slancio Veneto, Toscana, Piemonte, Emilia Romagna e Campania. Nel caso laziale pesano sul 2015 anche 3,37 miliardi di disavanzo di amministrazione, senza i quali il conto pro capite scenderebbe a 3.221 euro. Proprio le difficili eredità che i conti del Lazio devono gestire, però, spiegano anche il primato fiscale raggiunto dalla Regione, che ai redditi sopra 35mila euro (la soglia era a 15mila prima dell’ultimo ritocco) applica l’aliquota massima dell’addizionale al 3,33 per cento; lo stesso record si incontra in Piemonte, alle prese con il piano di rientro dal deficit sanitario, ma solo per i redditi che superano quota 75mila euro.
La rincorsa fra spese e tasse che rappresenta uno dei problemi strutturali italiani è infatti particolarmente evidente nelle Regioni, dove peraltro otto euro su dieci sono assorbiti dalla spesa corrente (e sei di questi otto euro servono alla sanità). Mentre le uscite non accennano a diminuire (in termini di pagamenti effettivi le sole spese correnti sono cresciute di 909 milioni fra 2014 e 2013), il Fisco regionale continua a crescere: l’anno scorso l’addizionale regionale si è fermata pochi spiccioli sopra gli undici miliardi di euro, e un nuovo scalino al rialzo è già stato posto dalle decisioni di quest’anno.
L’altro grande capitolo, che ogni tanto riemerge nel dibattito per essere però subito accantonato, è quello degli Statuti speciali. Il confronto in questo caso deve tenere conto del diverso pacchetto di competenze, che soprattutto a Nord assegnano alle Regioni autonome funzioni altrove svolte dallo Stato. I quasi 10mila euro di spesa pro capite raggiunti da Valle d’Aosta e Provincia di Bolzano, e gli 8.097 registrati a Trento, mostrano però una disponibilità di risorse incomparabile rispetto a quella dei territori ordinari, e alimentata dal fatto che il 90% del gettito fiscale rimane fermo in territori diventati ampiamente più ricchi della media nazionale.
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