La frenata del governo sulla riforma costituzionale che abolisce il Senato elettivo e riscrive il Titolo V della Costituzione, con lo spostamento della dead line per l’approvazione a Palazzo Madama in terza lettura a dopo la pausa estiva (si veda il Sole 24 Ore di ieri), sembra aver ottenuto per lo meno l’effetto di allentare la tensione in commissione Affari costituzionali. Ieri l’iter del Ddl Boschi è ufficialmente partito in Senato, con la relazione della presidente della prima commissione Anna Finocchiaro. E proprio ieri il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani ha fatto un’apertura non di poco conto se si considerano i numeri risicati della maggioranza nella Camera alta: «Il patto del Nazareno come accordo politico è definitivamente morto, ma questo non toglie che si può trovare una sede dove discutere per scrivere le regole insieme: ossia riforme costituzionali, legge elettorale e legge sui partiti – è l’offerta di Romani -. Se la presidente Finocchiaro ci farà delle proposte condivisibili possiamo discutere».
L’accenno di Romani alla legge elettorale, ormai approvata definitivamente, non promette bene: è noto infatti che Fi, così come la minoranza del Pd, vorrebbe introdurre il premio alla coalizione invece che alla lista, ed è altrettanto noto che Matteo Renzi non ne vuole sentir parlare. In ogni caso si tratta di un’apertura non da poco, visti i numeri in Aula (25 sono i senatori dissidenti del Pd che hanno firmato il documento in favore dell’elezione diretta del Senato mentre la maggioranza si regge per meno di 10 voti) e anche in commissione (con il passaggio di Mario Mauro all’opposizione, da Sc a Gal, maggioranza e opposizione sono 14 a 14 e per ora il presidente del Senato Pietro Grasso non ha dato segnali di voler intervenire). Nel merito il capogruppo di Fi si è detto favorevole a trovare «un qualche modo per eleggere il Senato in modo diretto». E qui la soluzione che sta mettendo a punto il Pd potrebbe anche andare bene: il cosiddetto “lodo Quagliariello” – ossia la previsione di listini ad hoc all’interno delle liste dei partiti per i consigli regionali in modo che gli elettori sappiano preventivamente quali consiglieri andranno a ricoprire anche la carica di senatori – potrebbe entrare direttamente in Costituzione senza toccare l’articolo 2 del Ddl Boschi così come vuole il governo (ossia nel nuovo articolo 70, dove si parla delle competenze legislative del nuovo Senato).
Per ora ai vertici di Largo del Nazareno interpretano le aperture di Romani come «segnali di fumo» a uso interno. Perché è chiaro che il capogruppo azzurro si è mosso anche per evitare che i senatori verdiniani – favorevoli alle riforme con il Pd – possano sfuggirgli di mano formando un nuovo gruppo. Lo stesso Romani, parlando ieri all’assemblea dei suoi senatori, ha detto che la fuoriuscita dei verdiniani sarebbe «impropria» perché «indebolirebbe» il percorso delle riforme. Una soluzione che tenga compatta Forza Italia, già avallata qualche settimana da Silvio Berlusconi, potrebbe essere quella della “libertà di coscienza” per i senatori azzurri. Libertà di coscienza che tuttavia sarebbe politicamente poco sostenibile, soprattutto in vista del referendum confermativo previsto «entro il 2016», come hanno ribadito sia Renzi sia la ministra Maria Elena Boschi. Quel che è certo è che le prossime saranno giornate di annusamento in Senato, dentro e tra i partiti.
La situazione interna al Pd non è estranea alla richiesta avanzata ieri dal capogruppo alla Camera Ettore Rosato di far slittare il voto per il rinnovo delle commissioni (in Senato il ricambio ci sarà a settembre). Ma la presidente Laura Boldrini ha concesso solo un paio di settimane: «Il 21 luglio è l’ultima data – ha detto – rispetto alla quale da parte della presidenza non ci saranno ulteriori rinvii». In casa democratica si tratta di trovare la quadra per individuare le quattro presidenze ancora in mano a Forza Italia da sostituire (e almeno una andrà ai centristi) e contemporaneamente le caselle mancanti del governo: nelle scorse settimane si è parlato di un “premio” per la minoranza dialogante che si è staccata da Pier Luigi Bersani con la nomina di Enzo Amendola, già in segreteria, a viceministro degli Esteri; mentre la casella Affari regionali è sempre destinata agli alfaniani.
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