L’esempio inglese può forse offrire qualche spunto di riflessione utile anche per l’Italia. Un apposito decreto legislativo, infatti, dovrà «assicurare l’omogeneità della qualità e dei contenuti formativi dei dirigenti dei diversi ruoli»: una sfida decisiva per provare a migliorare la capacità amministrativa del Paese. Il governo, in particolare, è delegato a intervenire sull’ordinamento, sulla missione e sull’assetto organizzativo della Scuola nazionale dell’amministrazione (Sna). La legge delega, in proposito, si limita ad autorizzare la «eventuale trasformazione della natura giuridica» di quest’ultima e a prevedere il coinvolgimento di istituzioni nazionali ed internazionali di riconosciuto prestigio. A tal fine. prevede anche la possibilità di «avvalersi, per le attività di reclutamento e di formazione, delle migliori istituzioni di formazione, selezionate con procedure trasparenti, nel rispetto di regole e di indirizzi generali e uniformi»; tutto ciò, naturalmente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Negli ultimi anni, il legislatore è più volte intervenuto per modificare l’assetto istituzionale del sistema formativo pubblico. Questa è stato così via via opportunamente razionalizzato. Le scuole storicamente esistenti presso le principali amministrazioni sono confluite nella Sna. Alcune sedi sparse sul territorio nazionale, ad Acireale, Bologna e Reggio Calabria, sono state chiuse. E il sistema formativo si è gradualmente aperto a collaborazioni con istituzioni universitarie pubbliche e private. Si è così avviata una graduale transizione da una Scuola “che fa” a una Scuola “che fa (anche) fare”.
Il modello francese dell’École nationale d’administration (Ena), tuttavia, rimane lontano. Diversamente dal caso francese, la Scuola italiana è ancora scarsamente collegata sia con l’amministrazione sia con il sistema universitario. Mentre la sede residenziale dell’Ena è a Strasburgo, nel cuore delle istituzioni comunitarie, quella della Sna è nella splendida ma periferica reggia di Caserta. L’Ena produce rapporti annuali di grande qualità che influenzano le scelte legislative e amministrative, mentre la Scuola raramente offre contributi rilevanti al dibattito pubblico. L’offerta formativa dell’Ena è ricca e di profilo internazionale, mentre quella della Scuola fa fatica a modernizzarsi e ad aprirsi all’estero.
Con la riforma, la Scuola probabilmente continuerà ad occuparsi direttamente del reclutamento e della formazione iniziale di funzionari e dirigenti. Ma l’approccio culturale dovrà cambiare profondamente. Non si tratta soltanto di contenuti didattici, già da tempo giustamente (anche se forse non ancora abbastanza) aperti a saperi extra-giuridici (gli ultimi due direttori della Scuola, d’altra parte, sono economisti). Altrettanto importante è favorire la formazione applicata dei funzionari pubblici, che dovrebbero avere una conoscenza più diretta del funzionamento non solo delle amministrazioni di destinazione, ma anche delle istituzioni europee e internazionali e delle imprese e organizzazioni private.
Allo stesso tempo, la Scuola dovrà far fare di più e meglio per quanto riguarda la formazione continua di dirigenti e funzionari. Negli ultimi anni, la Scuola ha avviato preziose collaborazioni e partnership con università e altre istituzioni. Ma ciò è accaduto spesso in modo disorganico e casuale. Anche l’offerta formativa della Scuola sembra rispondere a sollecitazioni eterogenee, legate più alle specifiche competenze dei singoli docenti che alla valutazione delle priorità educative. Per programmare correttamente e allocare all’esterno la formazione continua in modo più efficiente, la Scuola avrebbe bisogno, più che di un corpo docente, di un comitato scientifico di indirizzo strategico, possibilmente di respiro internazionale; oltre che di un gruppo di funzionari in grado di gestire gare e contrattazioni con le università e gli altri centri di formazione.
Una Scuola così riformata potrebbe più facilmente dedicarsi anche a progetti formativi speciali, come quello inglese prima ricordato, senza aver paura di avvalersi dell’apporto di università e società di consulenza private. Quello che è fondamentale è reclutare e formare una nuova élite amministrativa: anche attingendo direttamente al mercato (nazionale e internazionale, come dimostra la recente iniziativa del Ministro dei beni culturali per la direzione dei principali musei italiani) e ai giovani più brillanti usciti dalle università italiane e straniere.
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