Da oggi basta comunicare al Fisco l’impronta dell’archivio informatico dei documenti, che li sigilla senza possibilità di modificarli o sostituirli, per potersi finalmente sbarazzare della carta e vedere i propri documenti archiviati in formato digitale riconosciuti a tutti gli effetti di legge, per tutto il periodo in cui è d’obbligo la conservazione ai fini tributari.
L’impronta altro non è che una stringa di caratteri generata dalla funzione crittografica di hash, che trasforma dei dati di lunghezza arbitraria (un file qualunque) in una stringa di dimensione fissa chiamata valore di hash, impronta o somma di controllo (message digest in inglese).
Il sistema è molto conosciuto in ambito informatico perché viene applicato in diversi campi, dalla crittografia al controllo degli errori, dalla firma digitale al file sharing. In generale viene utilizzato da chi vuole distribuire dei dati potendo avere un riscontro su eventuali manomissioni. Il codice di hash, infatti, è univoco per ogni archivio di dati ed è indice di alterazione dei file qualora la stringa di caratteri subisca modifiche.
Al fine di tutelare i propri utenti anche gli sviluppatori, sempre più spesso, assieme al download del loro software forniscono il valore di hash, ovvero l’impronta digitale del programma, che consente di verificarne l’integrità.
In virtù di quanto disposto dal decreto ministeriale 23 gennaio 2004 sulle modalità di assolvimento degli obblighi fiscali per i documenti informatici e la loro riproduzione in diversi tipi di supporto, già da sei anni le aziende possono distruggere fatture e altra documentazione cartacea dopo averla memorizzata su un supporto informatico, ma con il provvedimento del 25 ottobre del direttore dell’Agenzia delle Entrate sono state approvate le disposizioni attuative della comunicazione dell’impronta dell’archivio informatico dei documenti rilevanti ai fini tributari e individuate le ulteriori informazioni che devono essere comunicate.
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